lunedì

SI PUO' BATTERE LA PAURA DELLE GARE?

Da qualche giorno sto pensando a cosa abbia dato lo sport a me, intendo dire la disciplina sportiva, quella fatta di allenamenti ripetuti, di gare e di un allenatore, non il gioco con amici, la corsa individuale o la nuotata in piscina. Visto che scrivo un blog su queste cose colgo l'occasione per riprendermi questo pezzo della mia storia, chissà se qualcun altro ci si ritroverà o trarrà spunti per rivedere la propria.

Devo dire che sono sempre stato per la seconda tipologia del fare sport, quella più estemporanea, amicale, ludica, un po' anarchica. Anche quando praticavo nuoto (per 7-8 anni) o atletica (per 5-6 anni) sognavo i momenti liberi al termine dell'allenamento e soprattutto, odiavo le gare. O forse le amavo
Una gara, che fosse di corsa o una partita di un torneo di calcio scolastico o parrocchiale, mi creava tali subbuglio e agitazione da non dormire la notte prima se non quelle precedenti. Ciò nonostante le facevo e le volevo fare, senza che peraltro nessuno me le imponesse, né l'allenatore né tanto meno i miei genitori. La gara indubbiamente mi affascinava e mi terrorizzava allo stesso tempo.

Perché? Sognavo incredibili imprese sportive, partite di calcio in cui facevo cose spettacolari e mi coprivo di gloria ma quando il fatidico momento si avvicinava la paura saliva alle stelle. La gara era la prova, se vogliamo usare un termine pedagogico, il momento ufficiale e formale in cui le regole erano più rigide e non si scherzava più. L'ho già scritto in questo blog, penso che le sfide siano importanti occasioni di crescita proprio perché sono i momenti in cui tutti si impegnano molto e quindi il livello emotivo-tecnico è più alto. Allo stesso tempo non sono la lotta per la vita e la morte e per sostenere la tensione bisogna saper relativizzare l'enfasi delle sfide. In fin dei conti persa una sfida ce n'è subito un'altra in cui ci si può risollevare e anche all'interno della stessa gara ci può riprendere dopo una brutta partenza.

Proprio perché sono momenti importanti, vanno tutelati per far sì che chi vi partecipa, soprattutto le prime volte, non si bruci. Penso sia importante che un allenatore, o comunque un genitore, abbia presente questi fattori per spronare alla competizione la sua squadra, o il figlio, e allo stesso tempo tutelarli.

Su questo non credo di essere mai stato aiutato nel modo giusto, lo dico obiettivamente e senza nessun rimpianto. Voglio dire, la strategia che mi è stata proposta in famiglia è sempre stata: "Non ti preoccupare, comunque vada la tua gara non è una cosa così importante", quando per me invece era tremendamente importante!! (per me poi la cosa importante non era tanto vincere quanto fare una figura dignitosa).

Non è riducendo l'importanza dell'esito di una competizione che se ne sdrammatizza la portata emotiva. Anzi. E' più utile invece, a mio parere e in un'ottica pedagogica, cercare di individuare tutti gli obiettivi che si possono raggiungere in una gara, oltre all'esito della propria prestazione individuale: sempre a livello individuale c'è anche la gestione tattica dell'avversario, la comprensione del livello di affaticamento del proprio corpo, la corretta esecuzione tecnica dei movimenti, lo sforzo di essere imprevedibili...In una squadra poi c'è l'attenzione alla coralità degli spostamenti, il sostegno ai compagni in difficoltà, la ricerca di una rapida intesa.
Insomma la sfida è innanzi tutto il momento in cui si impara, più in fretta e in maggior misura che al solito, anche a vincere, ma non quello in cui per forza si vince. E' il momento in cui si cresce non quello del giudizio.

2 commenti:

  1. Hai perfettamente ragione quando dici "non è riducendo l'esito di una competizione che se ne sdrammatizza la portata emotiva". Con te adolescente non funzionava così. Perchè non è così che può funzionare. Mi pare che la risposta dei tuoi, che è stata anche dei miei genitori e credo anche di molti altri, fosse una scorciatoia, un modo per liquidarti. Come poteva non essere importante una cosa che per te era importantissima? E che cosa esattamente non era importante? Ma era una scorciatoia, lo ripeto, imboccata in buona fede da chi non aveva gli strumenti per comportarsi diversamente. Per questo non sarebbe giusto ricriminarglielo, fargliene una colpa. La sfida educativa, quella soprattutto nella relazione genitori figli, è sempre un gran casino. A me pare che la sola via sia l'ascolto partecipe. E poi bisogna lasciare che il tempo passi.

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    1. La risposta-scorciatoia dei miei e dei tuoi genitori aveva un chiaro intento tutelante, un po' verso di noi e un po' verso di loro.

      Difendere il valore della competizione significa prima di tutto riconoscerlo e ancor prima di questo aver elaborato a propria volta la paura da gara e da prova. Cosa che in pochi fanno. So di persone, anche a me molto vicine, che hanno cambiato sport ogni anno per evitare di fare il saggio dimostrativo di fine corso.

      E poi c'è la cultura educativa dell'allontanamento delle tensioni e dei conflitti dai propri figli, che fa sì che quando i ragazzi inevitabilmente li incontrano, da soli, siano del tutto impreparati e si facciano quindi prendere dal panico.

      Una corsa campestre o una partita del torneo scolastico sono invece una splendido laboratorio di gestione delle tensioni e in quelle situazioni il genitore o l'allenatore di turno hanno l'opportunità di stare accanto ai ragazzi che fanno fatica, dando loro rimandi che escano dallo schema "non è una cosa importante-devi dare il massimo". I ragazzi vogliono già dare il massimo e considerano spesso la sfida importantissima.
      Condividere le proprie analoghe paure è utile, oppure mostrare come si ha imparato a gestirle. Significa legittimare uno spazio per le emozioni, per parlarne, per guardarle in faccia, dargli un nome e pian piano prenderne le distanze.

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