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UN PO' PIU' ABILI A SCIARE

Matteo ha 18 anni, è uno studente che si impegna nel giornalismo sportivo studentesco e ha seguito per due giorni un progetto di avvicinamento allo sci per portatori di disabilità dell'associazione Freerider. Il suo articolo ci apre una finestra su sport, disabilità e volontariato, e anche sul giocare con i primi limiti con il sorriso.
Quando si racconta di sport non si cerca solo di raccontare il singolo evento, ma anche di trasmettere le emozioni provate durante la manifestazione. Raccontare una manifestazione è già un impegno importante se ci si può immedesimare negli atleti, raccontare una manifestazione per disabili potrebbe diventare un’impresa anche a causa delle difficoltà di immedesimazione fisica. Ma proprio per questo è importante regalare, perché penso che ogni racconto sia un dono, qualche riga su un progetto portato avanti dall’associazione Freerider. Ormai in tanti si riempiono la bocca di “buone parole” e si ergono a difensori dei valori dello sport, ma nella realtà non sono molte le persone che si impegnano per fare in modo che questi valori vengano espressi nella quotidianità.

L’associazioni Freerider da dieci anni a questa parte regala a ragazzi disabili di tutta Italia, grazie a uno ski tour nelle maggiori sedi sciistiche italiane, la possibilità di cimentarsi con lo sci da seduti. Lo sport per disabili per me è stata un’avventura nuova ed emozionante, perché mi ha permesso di guardare in modo diverso lo sport e le gare. In una gara l’unico interesse è il risultato, l’atleta che conquista la medaglia, nel caso degli sport singoli, o la squadra vincitrice, negli sport di squadra, vengono toccati in quanto protagonisti delle gesta che rendono magica la competizione, ma non vengono considerati se non come atleti.


Il progetto “Primi 10” mi ha permesso di rimanere 24 ore su 24 a contatto con i ragazzi che, a parte poche eccezioni, iniziavano a confrontarsi con lo sci. Questa vicinanza con gli atleti, oltre a concedermi l’opportunità di sentire i giudizi a caldo da parte dei novelli atleti dopo le prime lezioni, ha permesso che si instaurasse un rapporto positivo con tutti i ragazzi che mi hanno dimostrato, dandomi una lezione di vita, come, anche nelle maggiori difficoltà, se lo si vuole davvero c’è sempre una via di uscita per ogni problema.
La tre giorni sulle ultime nevi di Bormio è stata, quindi, una festa per tutti, merito soprattutto del team Freerider e dei due dimostranti seduti, Pietro e Paolo, che hanno insegnato ai ragazzi.
Il segno caratteristico è stato il sorriso, mai fuggito dalle facce di tutti i presenti, atleti e accompagnatori, grazie anche alla simpatia di Carlo, atleta “esperto” tra i partecipanti, che con la sua parlantina non ha fatto mancare le risate, anche sulle piste con cadute spettacolari. Nonostante le cadute frequenti, soprattutto nei primi giorni, si sono molto ben distinti Marco, Luca e Ilaria.
Ma come spesso accade non tutti sono portati per un determinato sport e così la nuotatrice Angelica rinuncia alle ultime lezioni evidenziando come lo sci da seduti sia troppo faticoso a causa della durezza del “guscio”, la sedia con un sci sulla quale sciano i disabili aiutandosi con due bacchette-sci, che impedisce i movimenti del busto. Angelica parlando degli sport provati ha detto anche: “Lo sci non mi piace! Anche a canottaggio ho faticato, ma almeno quello mi è piaciuto.”
Un altro atleta che ha gettato la spugna prima di terminare i tre giorni delle lezioni è stato il cestita Ludovico che dopo varie cadute ha deciso di risparmiarsi per le partite di wheelchairbasket, sport giocato con Luca.
Nonostante la tre giorni non si sia conclusa con nessuna gara e nessun vincitore, siamo tornati a casa tutti vincitori! Perché i ragazzi hanno conosciuto la possibilità di sciare nonostante la disabilità e potersi rendere autonomi anche tra le nevi e noi, accompagnatori non familiari, studenti liceali e universitari, arrivati come volontari da Varese, abbiamo visto come la vita va avanti davanti a tutto e dopo ogni caduta ci si può rialzare più forti di prima.

In conclusione mi sento in dovere di ringraziare Giulio Broggini, Nicola Busata, Paolo Panzarasa, Fabrizio Tamborini, Davide Fumagalli, detto “Tomba”, componenti del team Freerider, insieme ai due dimostratori sitting/maestri, all’ASL di Varese, al Centro Addestramento Alpino di Moena e all’associazione Sestero, nella figura di Roberto Bof, che ha permesso a me e ad un altro studente fotografo di incontrare e conoscere un mondo a noi sconosciuto e vivere un’esperienza formante e straordinaria sulle nevi di Bormio.
Un grazie in ultimo, ma non per importanza, va a tutti gli atleti e i loro accompagnatori, che hanno reso questi tre giorni un po’ più magici.

Matteo Vismara

Le lacrime degli azzurri e il valore della crisi


Le lacrime degli azzurri VIDEO

"Abbiamo accusato la fatica, eravamo cotti".

La fatica è stata nominata spesso come principale fattore della disfatta azzurrra nella finale dell'europeo contro la Spagna. Per come è andata la partita e per le dimensioni del risultato si può proprio dire che l'Italia è andata in crisi. Il terzo e il quarto gol sono arrivati con i nostri giocatori che sembravano incapaci di tenere il pallone tra i piedi, gli spagnoli erano ovunque e recuperavano palla subito, hanno fatto gol con estrema facilità, potevano farne altri.

Nello sport la crisi è evidente e repentina, è un crollo verticale, gli avversari ti sopravanzano e tu vai in sofferenza. Il tuo corpo non ne può più, desidera soltanto smettere, smettere di correre, di nuotare, di combattere, di stare in gara, di respirare con affanno, di stare attento. Smettere significa uscire dalle regole della competizione, staccare la spina e recuperare le energie, meglio se sotto una doccia.

Chi fa sport fa sempre fatica e prima o poi incontra una crisi quando la fatica diventa troppa.

Per non andare in crisi basterebbe tener sotto controllo la fatica, abbassare il ritmo se si sta correndo o nuotando, mettersi in difesa in un partita di rugby o di calcio o in un match di boxe, fare qualche cambio di giocatori in una sfida di pallavolo o basket. Ma, come dimostra la finale degli europei, non sempre ci si riesce o non sempre è possibile.

Si va in crisi quando si è deboli, poco allenati, quando gli avversari sono troppo forti ma soprattutto quando si pretende troppo dalle proprie forze. Troppo? Di più del solito. Quando si vuole andare oltre i propri limiti con l'ambizione di migliorare.

A pensarci bene la crisi è tutt'altro che una situazione negativa se la si guarda in faccia: è sofferenza, non c'è dubbio, sofferenza fisica e psicologica, ma è anche l'occasione che ci fa testare i nostri limiti. Vista con questa prospettiva diventa un'occasione per capire qual'è il nostro limite attuale e cercare dei modi per andare oltre.

L'Italia dalla partita con la Spagna impara che non può affrontarla sul terreno del possesso palla se non correndo molto e muovendosi in modo corale. Oppure deve inventarsi altri modi di giocare...

Dalla crisi si impara il valore dell'allenamento, della disciplina dell'allenamento, della preparazione regolare. Difficilmente un ciclista prepara giro d'Italia e tour de France nella stessa stagione (a meno che non faccia ricorso a qualche bomba), un nuotatore non fa gli europei al massimo nella stagione delle Olimpiadi, entrambi pianificano i propri allenamenti in un crescendo che lo porti al massimo della forma nel momento cruciale.

Negli sport di squadra da una crisi si può imparare a cambiare impostazione tattica, a sviluppare nuovi aspetti tecnici, a valorizzare nuovi giocatori, a rafforzare la collaborazione nel gruppo.

C'è da chiedersi se si possa crescere di livello senza affrontare qualche crisi. Penso di no, penso che le sconfitte e le crisi insegnino di più, o almeno quanto le vittorie. L'importante è non voler scappare subito da quel dolore, rimanerci un po' a contatto, digerirlo lentamente, capire che lo si può sopportare e poi riassaporare il gusto di ripartire. Nello sport, in fin dei conti, è più facile che nella vita, la posta in gioco non è così alta, probabilmente è più difficile per i professionisti perché per loro lo sport è la vita. La storia di Pantani mi sembra esemplare.

Un allenatore con uno sguardo educativo la crisi la usa, la condivide con la sua squadra, ne parla, la interroga cercando altri punti di vista. Tra l'altro mi sembra l'unica maniera perché la crisi non diventi un incubo, uno spauracchio per il futuro, oppure, se minimizzata, esploda più virulenta a distanza di tempo.
Qualsiasi riferimento a politici-allenatori di calcio è puramente casuale...