mercoledì

PERCHÉ CORRI?

Avete presente Forrest Gump interpretato da Tom Hanks che attraversa l'America in lungo e in largo di corsa, barba e capelli lunghi da profeta, codazzo di seguaci dietro, e frotte di giornalisti che gli chiedono per quale causa lo stia facendo, ricevendo per risposta un semplice "avevo voglia di correre"? 

Mi sono posto questa domanda anch'io pochi giorni fa al termine di una corsa su di un sentiero in mezzo al bosco che spesso mi concedeva sguardi sul mare e sulle altre colline. La risposta mi sembrava semplice: mi stavo concedendo un'evasione dalla città, ero in mezzo alla natura e godevo della sua bellezza, sollecitavo piacevolmente vista, olfatto e udito. Però correvo, mica camminavo e tanto meno mi fermavo a contemplare i panorami. Ero pure dolorante ad un ginocchio, come spesso mi capita quando non corro da molto tempo, sapevo che non potevo rallentare perché altrimenti avrei fatto tardi per un appuntamento successivo e in più piovigginava.
Chi me lo faceva fare? Non avevo nessuna mezza maratona, corsa di massa, cross delle montagne da preparare, neppure esigenze particolari di linea, sì forse un po' di colesterolo da abbassare ma insomma non era quella la molla.

Più ci penso e più mi convinco che la mia motivazione a correre affondi le radici proprio nel campo delle sofferenze più che in quello delle gioie. Mi spiego meglio perché non sono certo masochista né sono convinto che il sacrificio prolungato fortifichi il corpo e lo spirito. Tutt'altro. Se sono in crisi solitamente mi fermo o rallento fino a non soffrire più, soprattutto ora che ho superato i quaranta.  Piuttosto si tratta della presa di contatto, mai così evidente e totale, con il mio corpo, questo compagno di strada che tanto spesso scompare dalla mia quotidianità, asservito com'è all'attività mentale. Quando corro siamo io e lui, la cosa a cui penso sono il respiro più o meno affannoso, le sensazioni di calore dovute allo sforzo, gli scricchiolii del mio ginocchio, le vibrazioni che subiscono i miei piedi nel contatto con il terreno sconnesso. "Finalmente ti ritrovo vecchio mio, è un po' che non ci incontriamo vero? Ok, ok adesso è meglio rallentare, certo questa salita ci mette alla prova, ecco però che in piano va decisamente meglio...sì certo mi sono accorto del ginocchio, proviamo a resistere ancora un po', forse migliora, direi che adesso è stabile, ecco direi che adesso stiamo piuttosto bene possiamo procedere così...i gomiti sono un po' intorpiditi meglio allungare le braccia ogni tanto...ecco se non guardo avanti, piegando la schiena, riesco ad assorbire le piccole buche del terreno".

Il contesto, indubbiamente piacevole, passa in secondo piano, è utile soprattutto per restare tranquilli e prestare attenzione proprio al corpo. Di fatto anche correre con qualcun altro è fuorviante, tanto più se si corre parlando e tornando con la mente alla giornata appena trascorsa.
Il concetto che a mio avviso più rappresenta questo rinnovato incontro è quello di vacanza, inteso come assenza. L'assenza della mente dal posto di comando. Per una volta tocca a lei mettersi al servizio del suo parente povero. Curioso che per fare questo ribaltamento-vacanza si debba affaticare il proprio corpo, ma evidentemente è uno dei pochi sistemi che abbiamo a disposizione, o forse meglio, che conosciamo nella nostra cultura.

Ma non è stato sempre così. Per me correre e allenarmi, da giovane praticante di atletica leggera, equivaleva a sopportare la sofferenza di macinare chilometri nell'obiettivo di migliorare i miei tempi o comunque la mia resistenza alla fatica. Punto. Avevo in mente una sola cosa mentre correvo: "resisti, resisti, resisti che poi finisce".
Era questione che avevo dei risultati da raggiungere, delle gare a cui partecipare, degli avversari o dei compagni di squadra da superare? Forse, ma soprattutto non conoscevo il mio corpo, né volevo conoscerlo, non pensavo che fosse utile starlo ad ascoltare, pensavo di doverlo forzare, obbligare a fare quello che avevo in testa. L'idea che potessi arrivare a quei risultati insieme a lui non mi sfiorava nemmeno, il corpo era piuttosto un fardello che mi impediva di arrivare a certi obiettivi e che doveva trasformarsi in qualcosa di utile al più presto. E se poi qualche risultato arrivava era merito della mia forza di volontà e della mia capacità di perfezionarmi.

Penso sia una delle conquiste più importanti della mia maturità questo incontro, ogni volta che avviene. Conquista a cui sicuramente hanno contribuito altre discipline come lo yoga e la difesa relazionale. Come dice Pennac nel suo splendido Storia di un corpo "...ogni volta che il mio corpo si è manifestato alla mia mente, mi ha trovato con la penna in mano, attento alla sorpresa del giorno". Io mi limito a goderne quando corro.

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