La vecchia questione se si debba spingere sulla competizione o sulla partecipazione vale a tutti i livelli, anche le super squadre di professionisti hanno questo problema. Bisogna puntare al successo nella singola partita/gara, quindi far giocare quelli più in forma, oppure puntare a far crescere e a dar fiducia a chi ha ancora necessità di fare esperienza, proprio grazie alla sfida?
Forse però il dilemma non esiste e chi crea un buon gruppo competizione e partecipazione li fa diventare pari ingredienti della stessa torta di qualità (che dite, il Barcellona può essere un buon esempio?) Io penso che la competizione funzioni come la verifica a scuola, permette cioé di imparare molto in fretta perché è il banco di prova, la situazione in cui devi dare il massimo. Tutti devono potervici accedere perché è una splendida occasione di crescita e per la squadra significa aumentare il capitale tecnico.
Allo stesso tempo negli sport di squadra la competizione significa condividere la responsabilità di una sconfitta o di una vittoria e tutti sono responsabili allo stesso modo, il campione, la recluta e l'allenatore. Ecco i problemi nascono lì, attorno alla responsabilità e al gap tecnico, perché le reclute, o i meno bravi, ovviamente hanno minor bagaglio tecnico ma in partita le stesse responsabilità, e siccome abbiamo detto che attraverso le sfide ci devono passare per crescere, allora la squadra deve compensare in qualche modo alle loro inevitabili mancanze, dovrà spendere di più, giocare meglio, avere maggiori attenzioni. L'allenatore a sua volta deve essere consapevole e preparare la squadra a questo sforzo, altrimenti rischia di soffocare di responsabilità, e in seguito di sensi di colpa, chi si affaccia timidamente alla ribalta delle competizioni.
Far crescere un giocatore è un'impresa di squadra, anche perché si fa per la squadra e non soltanto per il giocatore. L'allenatore è il garante di questa impresa. Il tutto, tra l'altro, mi sembra una splendida impresa educativa, da trasferire in molti altri ambiti delle relazioni tra le persone.
Allo stesso tempo negli sport di squadra la competizione significa condividere la responsabilità di una sconfitta o di una vittoria e tutti sono responsabili allo stesso modo, il campione, la recluta e l'allenatore. Ecco i problemi nascono lì, attorno alla responsabilità e al gap tecnico, perché le reclute, o i meno bravi, ovviamente hanno minor bagaglio tecnico ma in partita le stesse responsabilità, e siccome abbiamo detto che attraverso le sfide ci devono passare per crescere, allora la squadra deve compensare in qualche modo alle loro inevitabili mancanze, dovrà spendere di più, giocare meglio, avere maggiori attenzioni. L'allenatore a sua volta deve essere consapevole e preparare la squadra a questo sforzo, altrimenti rischia di soffocare di responsabilità, e in seguito di sensi di colpa, chi si affaccia timidamente alla ribalta delle competizioni.
Far crescere un giocatore è un'impresa di squadra, anche perché si fa per la squadra e non soltanto per il giocatore. L'allenatore è il garante di questa impresa. Il tutto, tra l'altro, mi sembra una splendida impresa educativa, da trasferire in molti altri ambiti delle relazioni tra le persone.
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