Paola, autrice del sito www.okdisabili.it, racconta perché faccia sport, delle frustrazioni che lo sport non-adattato genera a un disabile e rivela una curiosa analogia.
Faccio sport perché
sento molto il mio corpo, non posso evitarlo: mi impedisce di fare le
cose normali in modo normale. Questa sentenza si presenta ai miei
occhi in tutti movimenti e contesti che vivo: tu non lo puoi fare.
Quanto meno non lo puoi fare come ti dicono gli altri. E quindi?
Quale soluzione possiamo adottare? In una situazione così il plurale
è fuori luogo: questa è una realtà che va spesso a braccetto con
la solitudine. Bisogna capire, anche senza supporti esterni
qualificati, qual è il sistema per svolgere una data attività, il
più adatto alle proprie ridotte capacità. Gli “Altri” spesso
non capiscono. Non vogliono o non riescono a cambiare i metodi e
l’approccio all’insegnamento, quando lo sportivo è anche
disabile. Nella mia esperienza, l’adattamento è sempre stato mio
al mondo normale e non viceversa. Correndo e sentendomi perennemente
in ritardo o in panchina.
Ho ricostruito il mio corpo in anni di
fisioterapia e ho forzato la sua indole, facendogli superare i suoi
limiti.
Questo non è uno dei
principi dello sport? Oltre al piacere dello sforzo e alla sensazione
di liberazione da sé che dà il gesto fisico portato al limite? Un
disabile conosce molto bene il concetto di limite. Anche il principio
che per vivere si debba andare - o almeno provare ad andare - oltre i
propri limiti è sempre stato un presupposto all’integrazione con
la società di normodotati.
Questo è il mio vissuto:
nella mia esperienza di disabile non ho mai incontrato la realtà
dello sport adattato. Ho una emiparesi sinistra che mi permette di
adattarmi parzialmente allo sport dei normodotati: nessuno mai si è
adattato a me.
Praticare sport insieme
ai normali ha rappresentato per me una sfida: la voglia di andare
oltre ai miei limiti. Nessuno mai mi ha detto dell’esistenza di un
mondo sportivo per disabili. Non volevo riconoscere neanche che il
mondo al ritmo dei normali non mi potesse appartenere. Se non
sostenendo la fatica necessaria per cogliere l’illusione di poter
fare le cose come gli “Altri”. Il mio obiettivo era non essere
disabile, rinnegare la mia disabilità. In quest’ottica lo sport
rappresentava il campo migliore di espressione di tale rifiuto.
Poiché quello meno indicato. Come disabile motorio le attività per
le quali bisogna usare solo il cervello mi avrebbero permesso di
partire alla pari con gli “Altri”. Lo sport, però, rappresentava
anche l’alternativa cool alla fisioterapia: dopo quattordici anni
di sedute quasi quotidiane, diventata adolescente, capii che dovevo
abbandonare la realtà medica per affrontare il mondo reale, unendo
le due linee parallele rappresentate una dalla vita da malata (ruolo
che si recita quando si è disabile nella fase di adattamento
all’handicap) e l’altra dalla vita da normale (scuola, amici di
famiglia, contesto sociale intorno a me). Così, iniziai con lo
sport.
Lo sport è così
diventato una piacevole obbligo necessario per non perdere le
funzionalità acquisite in anni di sacrifici. Ho sempre vissuto il
mio corpo come se fosse un’auto d’epoca molto delicata che, se
tirata a lucido, può diventare competitiva, ma se viene trascurata
non si muove e basta. È una cura simile a quella che hanno gli
atleti per il proprio corpo. Gli estremi si toccano: il super dotato
atleticamente e il disabile devono fare i conti con aspettative
rispetto alla loro prestazione che sono al limite se non oltre le
loro possibilità.
Qualcuno mi ha mai dato
un volantino del Comitato Paralimpico? No! Qualcuno mi ha mai
consigliato di iniziare in un contesto sportivo con altri disabili?
No! Ecco, se io dovessi dire cosa vorrei fare per migliorare il mondo
dei disabili è proprio quello di diffondere questo messaggio: ci
sono persone che ti aspettano e capiscono che il tuo massimo è
diverso da quello degli altri. Senza commiserazione e con la voglia
di farti migliorare perché è importante che ogni disabile sappia
che il suo mondo parallelo non è un mondo di second’ordine, ma
solo un altro mondo nel quale c’è piena legittimità di esprimere
tutte le sfaccettature emotive legate al corpo. La vittoria ha un
sapore solo: non è speciale perché viene vissuta in un contesto per
disabili.
La
disabilità nello sport è espressa semplicemente nel concetto di
limite. Tutti gli atleti ne hanno uno e non riuscire a dare il meglio
di sé frustra un atleta disabile come uno normale. L’uguaglianza
può essere raggiunta dando legittimità oggettiva alla prestazione
atletica di entrambi. Non raggiungere lo stesso risultato perché in
possesso di uno strumento con dotazioni diverse – il corpo – non
riduce il valore del pilota, dell’atleta che si trova a dover
utilizzare un corpo che può ottenere prestazioni inferiori,
nonostante l’allenamento che sostiene e la determinazione che ci
mette. Un po’ come un pilota che corre per una scuderia con dei
mezzi inferiori agli altri. Il pilota può cambiare la moto, un
disabile può mettersi la protesi più performante possibile, ma non
lo farà mai “eguagliare” le prestazioni degli “Altri”.