giovedì

Per allenare in regola...adatta le regole a chi hai davanti

Bambini calciatori, pallavoliste in carcere, cestisti e rugbisti italiani e stranieri, le regole dello sport sono importanti per loro, al punto che... gli allenatori gliele cuciono su misura. La tavola rotonda di sabato 23 novembre al palazzo Ducale di Genova, all'interno della Fiera Mondoinpace ha permesso ad allenatori ed educatori di vari contesti e discipline sportive di confrontarsi sul tema delle regole. Questione di rilevanza educativa e infatti il taglio pedagogico ha caratterizzato le storie e le riflessioni dei presenti, come si voleva che fosse.

Alle regole, dicevamo, bisogna arrivarci, impararle gradualmente pena l'irrigidimento o il rifiuto dei giocatori, se è il caso cambiarle. Ne consegue che le invasioni a rete dei pallavolisti detenuti non vengono fischiate a meno che non venga divelta la rete stessa, che i passi dei piccoli del mini-basket siano spesso tollerati, che la squadra di calcio del centro diurno per chi soffre di disagio psichico sia composta da otto giocatori anche se il campo è di quelli a sette, che i veterani del rugby accorcino la durata delle partite per non andare in debito di ossigeno.

Sono tutti d'accordo, i relatori, che le regole si possano e debbano adattare, anche perché concordano sul fatto che si debbano comunicare soprattutto i principi fondamentali di uno sport. Quali?

"Nel rugby il sostegno è uno dei quattro principi fondamentali (insieme ad avanzamento, pressione e continuità), capite bene quanto questo sia trasferibile come valore nelle relazioni tra le persone" dice Paolo Pezzana allenatore degli under-10 del Cus Genova. "Aggiungo che le regole si imparano sul campo, io le introduco giocando, anche una regola complessa come il fuorigioco i bambini la imparano alla svelta". Potenza dello sport, aggiungo io, che ti permette di imparare facendo, quanto abbiamo bisogno in educazione di setting pratici (e fisici) in cui insegnare!

Fabrizio De Meo, coordinatore delle attività Uisp, introduce la Policy che l'associazione ha scritto per garantire ai bambini giocatori livelli sempre buoni di attenzione da parte dei propri allenatori. "Evitare gli abusi nello sport per noi vuol dire anche evitare che si propongano esercizi mal pensati o che si sprechi il tempo per scarsa organizzazione". E si sa quanto poco ci voglia perché un allenatore abusi del proprio potere, basta che sottolinei gli errori, che inevitabilmente i bambini fanno, davanti a tutti.

La Carta etica dei valori è invece un documento prodotto da Csi e consegnato alle famiglie che iscrivono i loro figli nelle squadre legate a questa organizzazione di orientamento cattolico. "Regole e valori per noi vanno introdotte insieme e fanno la cultura della società sportiva" sostiene Luca Verardo direttore del Pala Don Bosco.

Semplice a farsi? "Che i ragazzi facciano fatica ad imparare e a rispettare le regole ci sta, è una fatica sana del loro percorso di crescita. Meno sana è la fatica che fanno i genitori ad accettare le regole" dice Paola Bianchi, consulente pedagogico di Milano che sottolinea la ritrosia dei grandi a lasciare ad arbitro ed allenatori la gestione delle partite e della squadra in cui gioca il figlio. Prendere le distanze dai propri figli in campo è un valore così come accettare le decisioni dell'arbitro. Siamo ai fondamenti dell'educazione no?

C'è poi la questione della disciplina sportiva e della cultura che questa trasmette a chi la pratica grazie alle regole che quello sport ti chiede di rispettare.
"Nel basket ci si abitua ad attaccare e difendere tutti, alternando queste due fasi in un breve arco di tempo. Inoltre non ci si può estraniare dal gioco neanche per brevi periodi perché la squadra è composta da solo 5 giocatori" afferma Tommaso Ricci di Uisp.

"La pallavolo ti espone a grandi responsabilità, ogni errore che fai di solito costa un punto alla tua squadra. Bisogna dimenticare in fretta gli errori, incoraggiare il compagno che l'ha fatto e tenere alta l'attenzione per tutta la partita, ci vuol poco altrimenti a perderla" commenta Gaia Fiorini, allenatrice e formatrice di arbitri anche nel carcere di Marassi.

"Ai nostri piccoli calciatori chiediamo sempre di rendersi disponibili per il compagno, di modo che il suo passaggio sia facile e che la squadra possa mantenere il possesso della palla" conclude Piero Di Gregorio allenatore Csi di Sport Service Family di Genova. Per lo sport dei piedi, il calcio, controllo e gestione del pallone sono infatti aspetti difficili e allo stesso tempo determinanti. Conclusioni a cui giunge (interessante) anche l'esperto di disagio psichico adulto, educatore all'interno di una squadra di calcio dell'ospedale S.Carlo di Milano. "Fare fatica insieme è il mio obiettivo educativo principale, al bando gli eccessi di delicatezza e via ad un sano confronto con i propri limiti". E se lo dice l'educatore, che poi deve gestirsi le eventuali intemperanze psichiche dei giocatori, ci crediamo.

Le regole sono splendide possibilità per condurre un gruppo a crescere, alcune ce le troviamo, altre ce le diamo. Finché le intenderemo in questo modo riusciremo a sfruttarne tutto il potenziale educativo e a usarle come occasione d'incontro...come quello del Ducale in un freddo e senza mezzi sabato mattina genovese.

 

ALLENARE IN REGOLA, TAVOLA ROTONDA A GENOVA

All'interno di Mondoinpace, fiera sull'educazione alla pace, condurremo questo incontro pubblico. Nell'ottica a noi cara di esplorare le possibilità educative offerte dalle regole negli sport.


Sabato 23 novembre, 10-12, Loggia degli Abati (palazzo Ducale)

Le regole e i principi si alimentano a vicenda, anche nello sport. Le prime indirizzano i comportamenti, i secondi vi danno senso. Le regole cambiano di sport in sport, i principi sono trasversali, il gioco divertente è capire quale principio stia dietro ad ogni regola per vedere quali ritornano. Giocare con le regole, inventare regole, studiare le regole sono gesti che ti fanno accettare due principi importanti e opposti come l'uguaglianza e la diversità: le regole sono uguali per tutti e quando cambiano creano mondi (sportivi) diversi.


Spesso quando parliamo di Regole le concretizziamo anche in una figura, un ruolo che nello sport non è solo rappresentato dall'arbitro ma anche dall'allenatore.
Quest'ultima figura è rilevante rispetto all'apprendimento da parte di un atleta delle regole perché deve essere in grado di cogliere il senso della regola e poi di trasmetterla.
Ad ogni allenatore spetta il compito di capire quali sono i vincoli del proprio sport e di mettere a proprio agio i suoi atleti all'interno di questo processo, di affinare le loro abilità e le proprie di insegnamento. Inoltre per non rendere sterile il processo educativo, in particolare quando si allenano bambini, deve rispettare i loro tempi secondo il noto principio “andiamoci adagio”.

martedì

LA FATICA MAGGIORE? CRESCERE MENTRE GLI ALTRI TI STACCANO

La retorica probabilmente più diffusa legata al mondo dello sport, ma oserei dire anche al mondo aziendale soprattutto della vendita, è che si può andare oltre i propri limiti e che lo si può fare con un grande sforzo di volontà, credendoci. Ne risulta che gli atleti devono trovarla quella volontà e compito principale dei loro allenatori è stimolarli a tirarla fuori. Oppure indicargli due vie: quella dello sport amatoriale o quella del doping. Se vuoi stare sulla barca dello sport, quello vero, quello agonistico, devi avere le capacità, atletiche e caratteriali. "Se no fuori" come direbbe Briatore nel suo programma per imprenditori al top.

Quanto ci metteremo a uscire da questa cultura del successo che mescola volontà e droga, disprezzo della sconfitta e tripudio del talento naturale che pervade le società sportive (ma non solo ripeto) in Italia e altrove, producendo campioni stressati e masse di falliti? Non lo so, ma so cosa fa Roberto, da 40 anni allenatore di atletica di bambini e veterani su una pista in terra battuta che corre sotto la tangenziale di Milano. E so che va nella direzione opposta.


Roberto, passato da mezzofondista di buon livello oltre che di docente all'Isef, ha un grande rispetto dei limiti. Sa che sono dei punti di riferimento, ma anche che si può provare a superarli solo con il lavoro, continuo, nel tempo.

"Se uno vuole dei risultati deve mettere in conto qualche anno di allenamento continuo, e ciò nonostante può capitare che in gara, là dove si dà tutto, sulla pista e con le proprie sole energie, qualcuno di fatica ne faccia troppa. Allora è fondamentale recuperarlo quello sforzo, perché non scatti l'automatismo che gara=sofferenza", equivalenza che porta al disimpegno o all'abbandono.
A volte scatta il cambio di società "soprattutto se il genitore pensa che il ragazzino non sia stato allenato al meglio e nella disciplina più consona".


La questione è che è normale essere giù di forma o semplicemente "andar piano", la cosa importante è considerarsi all'interno di un processo, fatto di alti e bassi, in cui si può migliorare ma in cui nel frattempo si viene superati dagli altri. Crescere mentre gli altri ti staccano non è affatto facile ma è un'importante lezione che l'atletica offre, una conquista fondamentale da fare per non rimanere frustrati alle prime sconfitte. Se non si ha ben presente il principio che "per crescere non posso non perdere" è facile iniziare a inventarsi alibi di ogni sorta per sfuggire il confronto con gli altri a partire dall'allenamento. Fare grandi partenze in una gara di mezzofondo per poi ritirarsi oppure condurre un'intera distanza sottoritmo, oppure non partecipare del tutto alle gare. E' una cosa che ha che fare con la difficoltà a riconoscere ed accettare il proprio valore in quel momento, responsabilità che i ragazzi non accettano volentieri (e non solo loro). 

In uno sport individuale come l'atletica, ma caratteristiche simili ce le hanno anche il nuoto e lo sci, accettare il sorpasso e continuare a impegnarsi per migliorarsi, in gara come in allenamento, è probabilmente la prospettiva più importante, quella che permette di avere sempre nuove motivazioni proprio perché ci si vede in cammino. Ed è inevitabile, a differenza degli sport di squadra, sbattere contro personalmente agli insuccessi.


Insegnare questo, per un allenatore, è il motivo per cui vale la pena allenare non soltanto i possibili campioni ma ogni singolo ragazzetto. E' esercizio di consapevolezza e di responsabilità, è capacità di sdrammatizzare. E in questo Roberto era maestro.
 
p.s. Che Roberto abbia avuto a che fare anche con le mie paure adolescenziali di perdere è solo un dettaglio.

giovedì

IL BLOG E' DIVENTATO GRANDE

Più di 800 visite in pochi giorni per l'ultimo post  Guarda indietro che ti do sostegno !!!
Un brindisi e...un abbraccio ai lettori.
Un motivo in più per continuare a ricercare e a scrivere come sport, gioco e movimento facciano crescere le persone.
 

Guarda indietro che ti do sostegno!



Quello che impari alla svelta nel rugby è che da solo non vai da nessuna parte. Tra i ragazzini c’è chi è dotato di velocità e forza fisica e riesce a far fuori da solo un’intera difesa, lo fa una volta, magari anche due o tre, poi però gli avversari capiscono come buttarlo giù, lui inizia a prendere un po’ di colpi e allora per forza deve imparare a girarsi e a cercare sostegno”.

Il concetto di sostegno fa brillare gli occhi a P., l’allenatore con cui sto parlando, entusiasta dello sport anche perché vi ritrova valori della sua cultura di educatore.

E’ disarmante la semplicità con cui le regole del rugby ti mettono nelle condizione di dover collaborare, non è soltanto che i tuoi compagni si arrabbiano se non passi la palla (come in altri sport), è che gli avversari ti abbattono! Il messaggio di un placcaggio non lascia dubbi: “di qua non vai più avanti”. Oltre al fatto che l'impatto si sente, eccome. La cosa interessante è che anche un placcaggio non blocca l’azione offensiva se c’è qualcuno pronto a raccogliere la palla e a ripartire.

E poi il placcaggio lo puoi evitare se passi la palla. Certo ti devi ricordare di passare la palla all’indietro, il che ti obbliga ad aver fiducia che dietro di te, primo della squadra ad avanzare (nel rispetto della regola del fuorigioco “tutti dietro la linea della palla”), e quindi spesso fuori dal tuo campo visivo, ci sia qualcuno a cui cedere l’ovale. Altrimenti calci, in avanti, ma se calci la probabilità di perdere la palla è alta. Nelle giovanili non è nemmeno concesso (sarà un caso?).

Io cerco i compagni perché so che non mi lasceranno solo a farmi placcare e a farmi rubar palla, come farò io nei loro confronti quando cercheranno di avanzare nella difesa avversaria, perché se ci aiutiamo ci potranno fermare cento volte ma noi potremo sempre ripartire. Forse il punto è proprio questo: se c’è sostegno gli stop non sono definitivi e il placcaggio è soltanto una tappa di un continuo percorso di avanzamento collettivo. Sa di epopea bellica, no? (Calcio e rugby, la guerra con la palla)D'altronde la guerra è una grande azione collettiva e organizzata, peccato che serva ad annientare qualcun altro. Nel rugby al contrario le regole, e gli allenatori-educatori che le introducono, fanno sì che lo scontro non sia violento ma controllato. Controllare la propria forza e la propria aggressività pur esercitandole (principio comune alle arti marziali), non male anche questo come spunto educativo anche perché richiede continua attenzione al corpo, tuo e degli altri. Cosa ne penserà del rugby Pennac, recente autore di Diario di un corpo?

D’altronde il rugby, nato nei college inglesi, lo spirito pedagogico se lo porta dietro da tempo e non a caso ai nostri tempi gli allenatori delle giovanili si chiamano educatori e nel regolamento per gli under 12 ogni regola è addirittura seguita dall'interpretazione educativa!

Il rinforzo allo spirito di squadra viene poi confermato da altre fasi del gioco come la mischia, l’intreccio di braccia e teste che mette le squadre alla prova del più forte e in cui si deve spingere contemporaneamente, o la difesa, quando devi chiudere tutti i corridoi agli avversari sostenendo i compagni, pena la certezza di uno sfondamento e di una meta subita.


Alla fine dell'anno un bambino grande e grosso che per molte partite riusciva a sfondare da solo e a fare meta, ha iniziato a girarsi, aveva troppi avversari addosso. A quel punto passando la palla spesso serviva un compagno che faceva meta e lui a fine partita veniva a dirmi: “Hai visto quante mete ho fatto fare!” conclude l'intervista P. A 7 anni direi che è una bella conquista.

martedì

Il campione e il disabile: compagni di "schiavitù" da super allenamento.


Paola, autrice del sito www.okdisabili.it, racconta perché faccia sport, delle frustrazioni che lo sport non-adattato genera a un disabile e rivela una curiosa analogia.
 
Faccio sport perché sento molto il mio corpo, non posso evitarlo: mi impedisce di fare le cose normali in modo normale. Questa sentenza si presenta ai miei occhi in tutti movimenti e contesti che vivo: tu non lo puoi fare. Quanto meno non lo puoi fare come ti dicono gli altri. E quindi? Quale soluzione possiamo adottare? In una situazione così il plurale è fuori luogo: questa è una realtà che va spesso a braccetto con la solitudine. Bisogna capire, anche senza supporti esterni qualificati, qual è il sistema per svolgere una data attività, il più adatto alle proprie ridotte capacità. Gli “Altri” spesso non capiscono. Non vogliono o non riescono a cambiare i metodi e l’approccio all’insegnamento, quando lo sportivo è anche disabile. Nella mia esperienza, l’adattamento è sempre stato mio al mondo normale e non viceversa. Correndo e sentendomi perennemente in ritardo o in panchina.

Ho ricostruito il mio corpo in anni di fisioterapia e ho forzato la sua indole, facendogli superare i suoi limiti.

Questo non è uno dei principi dello sport? Oltre al piacere dello sforzo e alla sensazione di liberazione da sé che dà il gesto fisico portato al limite? Un disabile conosce molto bene il concetto di limite. Anche il principio che per vivere si debba andare - o almeno provare ad andare - oltre i propri limiti è sempre stato un presupposto all’integrazione con la società di normodotati.

Questo è il mio vissuto: nella mia esperienza di disabile non ho mai incontrato la realtà dello sport adattato. Ho una emiparesi sinistra che mi permette di adattarmi parzialmente allo sport dei normodotati: nessuno mai si è adattato a me.

Praticare sport insieme ai normali ha rappresentato per me una sfida: la voglia di andare oltre ai miei limiti. Nessuno mai mi ha detto dell’esistenza di un mondo sportivo per disabili. Non volevo riconoscere neanche che il mondo al ritmo dei normali non mi potesse appartenere. Se non sostenendo la fatica necessaria per cogliere l’illusione di poter fare le cose come gli “Altri”. Il mio obiettivo era non essere disabile, rinnegare la mia disabilità. In quest’ottica lo sport rappresentava il campo migliore di espressione di tale rifiuto. Poiché quello meno indicato. Come disabile motorio le attività per le quali bisogna usare solo il cervello mi avrebbero permesso di partire alla pari con gli “Altri”. Lo sport, però, rappresentava anche l’alternativa cool alla fisioterapia: dopo quattordici anni di sedute quasi quotidiane, diventata adolescente, capii che dovevo abbandonare la realtà medica per affrontare il mondo reale, unendo le due linee parallele rappresentate una dalla vita da malata (ruolo che si recita quando si è disabile nella fase di adattamento all’handicap) e l’altra dalla vita da normale (scuola, amici di famiglia, contesto sociale intorno a me). Così, iniziai con lo sport.

Lo sport è così diventato una piacevole obbligo necessario per non perdere le funzionalità acquisite in anni di sacrifici. Ho sempre vissuto il mio corpo come se fosse un’auto d’epoca molto delicata che, se tirata a lucido, può diventare competitiva, ma se viene trascurata non si muove e basta. È una cura simile a quella che hanno gli atleti per il proprio corpo. Gli estremi si toccano: il super dotato atleticamente e il disabile devono fare i conti con aspettative rispetto alla loro prestazione che sono al limite se non oltre le loro possibilità.

Qualcuno mi ha mai dato un volantino del Comitato Paralimpico? No! Qualcuno mi ha mai consigliato di iniziare in un contesto sportivo con altri disabili? No! Ecco, se io dovessi dire cosa vorrei fare per migliorare il mondo dei disabili è proprio quello di diffondere questo messaggio: ci sono persone che ti aspettano e capiscono che il tuo massimo è diverso da quello degli altri. Senza commiserazione e con la voglia di farti migliorare perché è importante che ogni disabile sappia che il suo mondo parallelo non è un mondo di second’ordine, ma solo un altro mondo nel quale c’è piena legittimità di esprimere tutte le sfaccettature emotive legate al corpo. La vittoria ha un sapore solo: non è speciale perché viene vissuta in un contesto per disabili.

La disabilità nello sport è espressa semplicemente nel concetto di limite. Tutti gli atleti ne hanno uno e non riuscire a dare il meglio di sé frustra un atleta disabile come uno normale. L’uguaglianza può essere raggiunta dando legittimità oggettiva alla prestazione atletica di entrambi. Non raggiungere lo stesso risultato perché in possesso di uno strumento con dotazioni diverse – il corpo – non riduce il valore del pilota, dell’atleta che si trova a dover utilizzare un corpo che può ottenere prestazioni inferiori, nonostante l’allenamento che sostiene e la determinazione che ci mette. Un po’ come un pilota che corre per una scuderia con dei mezzi inferiori agli altri. Il pilota può cambiare la moto, un disabile può mettersi la protesi più performante possibile, ma non lo farà mai “eguagliare” le prestazioni degli “Altri”.


giovedì

Cosa deve chiedere un allenatore ai suoi ragazzi: suggerimenti dal basket


Durante l'intervista Maurizio, allenatore di basket e minibasket del Basket Melzo, mi cita un dato interessante: "Ho osservato di recente la percentuale di presenze di ragazze e ragazzi della società (squadre tra gli 11 e i 18 anni) agli allenamenti, abbiamo più del 90%. Se i ragazzi vengono con questa continuità vuol dire che in palestra innanzi tutto stanno bene".

Ci mettiamo a discutere sul perché di questo "stare bene" in allenamento, diffuso tra le varie squadre maschili e femminili di varie età.

"Per quanto mi riguarda io dedico del tempo a ognuno di loro e uso modalità diverse a seconda dei soggetti. C'è quello a cui devi saltare in testa perché altrimenti non ti sta ad ascoltare, c'è quello che se gli stai troppo addosso si irrigidisce. Qualcuno, passato ad altri allenatori e poi uscito dal giro del basket, rincontrato ad anni di distanza mi ha detto che con gli altri non trovava stimoli perché non lo correggevano mai.
Io in allenamento dico sempre che non devono aver paura di sbagliare, anzi che devono sbagliare altrimenti non impareranno mai un movimento o un gesto nuovo".

L'allenamento è il luogo del rischio, il rischio della figuraccia e della frustrazione, che però in allenamento sono più tollerabili, perché non ti fanno perdere la partita ma soprattutto perché c'è l'allenatore che dà un senso ai tuoi tentativi, che ti spiega la direzione verso cui orientare i tuoi sforzi (per esempio nel basket come alzare la parabola del tiro) e sottolinea quando ti stai avvicinando ad una buona esecuzione, che non è per forza una ed unica. Certo che se l'allenatore per qualsiasi motivo non c'è, il senso di quegli sforzi si perde per strada e con quello anche la motivazione.

"Io poi ho lasciato del tutto gli schemi. Qualche anno fa ho conosciuto un allenatore croato (o serbo?) che durante un corso per allenatori minibasket della federazione è venuto a portare la sua esperienza. Sono rimasto colpito dalla semplicità dei loro allenamenti e dalla totale assenza di schemi. Il rischio con gli schemi, parlo delle giovanili, è che si concentrino sul movimento assegnato e perdano la situazione che si verifica sul campo...
...Noi facciamo due allenamenti alla settimana, preferisco imparino poche cose ma bene.
All'inizio perdiamo parecchie partite, ma a lungo termine vedo crescere giocatori completi."

Presenza attiva, semplicità e tempi lunghi...sembrano buoni riferimenti per un allenatore per avere gli allenamenti affollati e per far crescere i propri atleti. Certo, bisogna avere come obiettivo quello di far crescere i propri ragazzi, cosa che non sempre è la priorità delle società.

lunedì

Paura di sbagliare, desiderio di gloria e gioco di squadra

Ho iniziato a fare le interviste che serviranno da base per il libro sugli allenatori-educatori e rileggendole ho notato alcuni concetti che sembrano non andare d'accordo.

Nella pallavolo, per esempio, lo sport in cui la "palla scotta" perché non può mai cadere per terra, i bambini alle prime armi tendono a buttare la palla di là dalla rete il prima possibile, per lo più già con la ricezione. Perché? Così non possono essere accusati di aver fatto perdere il punto alla squadra.

Nel calcio, in cui lo scopo è far entrare la palla nella porta avversaria i "pulcini" prendono palla e cercano di far gol da soli, così da gloriarsi davanti a compagni, allenatore ma soprattutto genitori del successo ottenuto.

Si può anche dire che il giocatore di volley che butta di là la palla lo faccia per cercare la gloria del punto, così come il piccolo calciatore, che punta in avanti, tenga la palla lontana dalla propria porta e quindi dal terrore di un gol subito.

Gli allenatori devono allora insegnare soprattutto a superare queste emozioni-tendenze istintive che per motivi opposti portano all'individualismo e quindi alla negazione dello sport di squadra.
Cosa facile? Tutt'altro, perché oltre alle paure e desideri dei ragazzi ci sono quelli delle famiglie che vengono a vedere le partite e gridano tutta la loro paura di perdere e desiderio di vincere, subito e senza troppi esperimenti.

Ecco allora una dote che l'allenatore deve avere o costruirsi: difendere il tempo necessario a creare una squadra e a fare gioco di squadra. Paura di sbagliare e desiderio di gloria rapida, altrimenti, ti fanno giocare da solo.

venerdì

Calcio e rugby ovvero la guerra con la palla

La storia di calcio e rugby è per buona parte comune, vale a dire che per secoli gli uomini hanno praticato giochi di squadra, con la palla, utilizzando mani e piedi e avendo l'obiettivo di arrivare con quella nel campo avversario.

Il cinese Tsu-chu prevedeva una palla di cuoio, piena di piume, da infilare in un cesto sostenuto da due canne di bambù utilizzando soltanto i piedi. Ci sono tracce di incontri internazionali tra Giappone e Cina già nel primo secolo avanti Cristo.

I romani praticavano l'Harpastum (dal greco arpazo, "strappare con forza") e dovevano portare una piccola palla, passandosela con mani e piedi, sulla linea di fondo del campo avversario. Vi giocavano i legionari e lo diffusero quindi nei paesi europei dove combattevano.

Nel medioevo le cronache inglesi, francesi e fiorentine parlano di vari giochi con la palla tra fazioni o villaggi, sottolineando il carattere violento di questi incontri, al limite della rissa legalizzata: in Inghilterra il large-football fu messo al bando nel 1388 dal re, a Firenze in alcune piazze venivano affissi pubblici divieti. Ciò non di meno alle partite di calcio fiorentino parteciparono notabili della famiglia Medici e Gonzaga, nonché giovani futuri papi come Clemente VII. D'altronde le regole di questo gioco erano poche: un campo rettangolare, due lunghe reti poste su due lati corti a delimitare le “porte” da centrare, e due squadre di 27 giocatori, l’una contro l’altra. Lo scopo era (ed è, visto che dal 1930 quattro quartieri di Firenze ci giocano ancora per contendersi un palio) fare “caccia”, portando o lanciando la palla contro la rete avversaria con qualsiasi parte del proprio corpo. Nel contempo si potevano fermare gli avversari in qualsiasi modo, che essi fossero in possesso di palla o meno.




Nel calcio fiorentino la componente simbolica e celebrativa della forza e del coraggio di un partito (i bianchi, i rossi, i verdi e gli azzurri) era forte, tant'è che i giocatori indossavano sfarzose vesti e gli incontri più importanti si svolgevano in Piazza Santa Croce in occasione del Carnevale di fronte alle famiglie più importanti.

La sensazione è che il gioco di squadra con la palla, per come è stato praticato nei secoli, mimasse i conflitti tra gruppi e comunità, li esorcizzasse in qualche modo con la componente ludica, ma che spesso la violenza affiorasse a rimarcare la natura bellica latente, probabilmente perché le regole non erano sufficientemente chiare e tutelanti (variavano infatti di paese in paese).

Torniamo all'Inghilterra, patria del calcio e del rugby moderno. Sembra che la denominazione football sia nata per indicare che nel popolare gioco ci si muoveva a piedi, a differenza dei giochi dei nobili in cui veniva utilizzato il cavallo per spostarsi. Le parti del corpo preposte a colpire la palla erano infatti, fino agli anni '60 dell'ottocento, sia le mani che i piedi. Nel novembre del 1863 ci fu la svolta: nella disputa interna alla Footbal Association prevalgono le ragioni di Mr Morley e quindi le seguenti fondamentali regole: nessun giocatore potrà correre con la palla tra le mani o caricare l'avversario. Il calcio, come oggi l'intendiamo, imbocca la sua strada. Ma la fazione facente capo al college di Rugby non intende snaturare il gioco della sua componente legata al contatto e all'uso delle mani, per cui nel 1871 si costituisce la Rugby Footbal Union.

Il football è inizialmente praticato dai giovani delle scuole più ricche e delle università. Le classi sono sempre composte da dieci alunni, a cui si aggiunge il maestro che gioca sempre insieme a loro: nasce così la consuetudine di giocare in undici. Il capitano di una squadra di calcio è quindi una sorta di discendente del maestro che, in quanto tale, dirigeva la sua classe di alunni. Lo sviluppo all'interno delle scuole accentua la natura educativa, le regole aumentano per cui sia il calcio, ma anche il più cruento rugby, incanalano la componente violenta che ha caratterizzato i giochi con la palla nei secoli precedenti verso un conflitto ordinato e meno distruttivo.



Ai giorni nostri, in tempi di professionismo e business, di federazioni e leghe che organizzano e tutelano le partite e i regolamenti, le partite non hanno comunque smesso di rappresentare una battaglia simbolica tra quartieri, città, nazioni. Infatti se sul campo è difficile ormai che le partite degenerino in rissa, sugli spalti il tifo organizzato assomiglia spesso a una parata militare e non di rado qualcuno si dimentica che le battaglie sono di fatto dei giochi, anzi, degli spettacoli. Non è soltanto disagio sociale, è anche storia.


Fonti: Wikipedia.it e inStoria.it

lunedì

FUORI DAL CAMPO GENITORI !!

di Giancarlo Rinaldi
Domenica 21 aprile 2013, ore 10.15, Orio al Serio (BG) si gioca la partita di campionato mini allieve CSI tra Petosino e Ponteranica, squadra dove milita mia figlia. Entro in palestra e su un pilastro della tribuna trovo questo foglio appeso:


La prima reazione è stata quella di pensare che qualcuno mi avesse rubato l’idea, se non altro perché già qualche anno fa con alcuni colleghi esperti in questioni educative e pedagogiche avevamo colto l’urgenza, e scritto delle cose a riguardo, rispetto al rapporto tra genitorialità e sport.

Oltre a condividere alcuni dei contenuti consigliati trovo semplice, immediato ed efficace lo strumento comunicativo utilizzato se non altro perché lo si trova, appunto, a bordo campo.

Dopo una breve ricerca sul web scopro che gli ideatori di questa interessante iniziativa sono due genitori con figli rugbysti che con l’aiuto di un amico tipografo hanno messo su carta questi “cinque comandamenti”. E’ stato aperto anche un profilo Facebook a riguardo:


Complimenti agli autori e Buona lettura …

venerdì

Nuovo sport: chi si dopa meglio


A quale sport giochiamo?
di Giancarlo Rinaldi

Che fine ha fatto il doping?

A seguito dell’exploit dell’affaire Armstrong com’è prassi nel “bel paese”, ma non solo, dopo il grande scandalo e la forte esposizione mediatica tutto si è sgonfiato nell’indifferenza e nell’assuefazione generale.

Quelli di alcuni mesi fa sono stati giorni caratterizzati da un pullulare di commenti, punti di vista, illazioni sull’intervista rilasciata da Lance Armstrong nel talk-show di Oprah Winfrey.
Delle cose dette e dei commenti fatti da giornalisti ed esperti del settore, molteplici sono stati gli spunti attorno ai quali aprire una riflessione, un dibattito.

Ma c’è un aspetto, un luogo comune che trovo ricorrente sin dai tempi dei fasti e del dramma di Marco Pantani. Un luogo comune, presente anche nelle cose dette da Armstrong nell’intervista.
Nella rappresentazione di molti sportivi, ma non solo, è vivida l’idea secondo cui il “campione”, trovato positivo all’uso di sostanze, lo sarebbe stato anche senza, perché in fondo tutti ne fanno uso e quindi si gareggia ad armi pari.

A parte il fatto che questa cosa è tutta di dimostrare dal punto di vista scientifico, a mio avviso questa visione rischia di essere alquanto pericolosa e soprattutto è la morte di ogni etica sportiva e dello sport stesso se si considera che le regole e il loro rispetto sono il fondamento su cui lo sport in generale si basa.

Se tutto è lecito vengono meno quei criteri che consentono all'individuo di gestire adeguatamente la propria libertà nel rispetto degli altri, così come vengono meno quei fondamenti che consentono di distinguere i comportamenti buoni, giusti, o moralmente leciti, rispetto ai comportamenti ritenuti cattivi o moralmente inappropriati. Sarebbe lo sport del caos.

Tornando alla questione dal punto di vista medico, che questa teoria sia tutta da dimostrare è rappresentata anche dal fatto che ad una stessa assunzione di farmaci non tutti reagiamo allo stesso modo.
 
Come afferma Andrea Monti sulla Gazzetta dello Sport la teoria secondo cui i campioni, a parità di truffa, emergono comunque, non avrà mai riprova. La riprova non si può avere anche per il fatto che ognuno reagisce in modo soggettivo e quindi diverso all’uso di farmaci dopanti, perché di farmaci si tratta.



Ma non solo: è proprio un altro sport, perché in questo caso la gara è a chi si dopa meglio.
Per dirla come il recente titolo del libro di Alessandro Donati è “lo sport del doping”.
Probabilmente è proprio così.
In fondo Armstrong, e molti altri come lui, in questi anni hanno fatto proprio un altro sport.

giovedì

La corsa "primitiva" è la più efficiente, troppa volontà impoverisce i movimenti

Un'illuminante intervista di Pensare con il corpo a Tolja e Panzeri, studioso di tecniche corporee il primo e centochilometrista il secondo, ci dice che il movimento migliore nella corsa è quello istintivo, gestito dalla sottocorteccia del cervello, piuttosto che quello imposto dalla volontà e quindi dalla corteccia.  Come dire che il corpo va "sentito" sempre e che in allenamento il piacere è più efficace dello sforzo, principio su cui concordo in pieno e ricorda Per andare veloci non bisogna avere fretta .

 http://www.bodythinking.com/it/Capitoli/Sport/correre.html



lunedì

Quando il tempo è tutto, o anche, Il movimento buono è al momento giusto

Oggi voglio fare un parallelo tra diversi sport per parlare di quello che probabilmente è il requisito più importante per la buona esecuzione tecnica di un movimento nello sport: il tempismo.

Lo schiacciatore che sta per ricevere la palla per la schiacciata sa che le soluzioni migliori per colpire ce le ha se si fa trovare il più in alto possibile e con il braccio già in azione.

Il calciatore che va al tiro di prima sul passaggio del compagno deve avere già in mente di piegare la schiena e appoggiare il piede molto vicino alla palla in arrivo se vuole dare potenza e precisione.
 
Il tennista va all'impatto con la pallina nel punto più alto della sua parabola per dare forza e avere maggiori probabilità di scavalcamento della rete.

In tutte e tre queste situazioni bisogna aver chiaro il movimento, essere concentrati e saperlo eseguire in modo rapido perchè il momento buono è breve. Ci vuole energia mentale e reattività fisica ed entrambe le cose vanno esercitate, perché la reattività del corpo è sprecata se il cervello non dà precise indicazioni, così come il cervello pensa solo le soluzioni che il corpo può mettere in atto.

Chi sa cogliere il tempo giusto è sempre ben allenato, mentalmente e atleticamente, i due aspetti non si separano mai, il corpo affaticato affatica la mente, la mente appesantisce il cervello e tu non arrivi puntuale all'appuntamento con la palla...o con l'avversario.
 
Il tempismo nasce forse con il "carpe diem" di Orazio? Di sicuro è una categoria fondamentale anche in altri ambiti, per esempio nelle comunicazioni tra persone, nei dibattiti e nelle rappresentazioni teatrali, situazioni in cui la risposta pronta (e pertinente) è spesso sinonimo di efficacia.
 
In educazione sicuramente è importante, il tempismo apre finestre su mondi sconosciuti e inesplorati che altrimenti rischierebbero di chiudersi alla svelta. Tempismo è intuizione e l'intuizione ti fa superare in un attimo quelle che sembravano montagne. Devi saper cogliere nell'altro lo sguardo attento e... fare l'assist vincente.

sabato

PER ANDARE VELOCI NON BISOGNA AVERE FRETTA


A pensarci bene definire la corsa uno sport è per lo meno riduttivo. Se osservi i bambini la corsa è addirittura la loro modalità preferita per spostarsi (a cui alternano soste infinite...), per gli adulti è il movimento di quando hanno molta fretta. Solo qualche millennio fa per i nostri antenati la corsa era funzionale alla caccia, quindi alla sopravvivenza, per alcune popolazioni tribali è tuttora così. Altro che sport.

Eppure qualche secolo prima di Cristo, nell'antica Grecia, gli uomini pensarono di trasformare quel naturale e accellerato movimento di gambe in una gara e successivamente in uno spettacolo da stadio. Alle Olimpiadi la corsa, inizialmente quella veloce, poi quella lunga, iniziò a prendere le caratteristiche che conosciamo nell'atletica leggera: lo stadion era uno sprint di circa 200 metri, tutti rettilinei, con tanto di giudici di partenza e di arrivo.


Indubbiamente era la competizione più importante delle intere Olimpiadi, come d'altronde sono i 100 metri ai nostri giorni, ma all'epoca i giochi olimpici erano qualcosa di più di un evento sportivo, o commerciale: le gare erano un omaggio agli dei, quindi avevano carattere sacro e propiziatorio e il il grande atleta aveva qualcosa di divino. Bolt forse guadagna di più, ma non penso raggiunga quei livelli di considerazione!

Veniamo ai giorni nostri per capire a cosa ci educa la corsa veloce nelle forme che ha preso nell'atletica leggera. Parto dalla mia esperienza di gare (tutt'altro che irresistibili) e allenamenti tra gli 8 e i 20 anni su distanze quali i 60, i 100, i 150, i 200 metri piani, di fatto anche i 400 metri: ti posizioni sui blocchi, attendi lo sparo, scatti, raggiungi la posizione eretta, spingi al massimo senza risparmiarti a fianco dei tuoi avversari facendo andare le gambe e coordinando le braccia, osservando con la coda dell'occhio la posizione degli altri per poi buttarti sul traguardo. Pochi secondi in cui sputar fuori tutte le energie. Non è una cosa a cui si è abituati, gli sforzi intensi non fanno parte della nostra quotidianità, soprattutto se accanto c'è qualcuno che vuole fare meglio di te e magari lo fa. Si perché non c'è paragone tra il dare tutto e stare davanti, posizione che ti moltiplica le energie, e dare tutto, stare dietro e non recuperare un centimetro. Ne devi avere di fiducia in te stesso per non mollare in quei casi.

Non basta però dare tutto, trattenere il fiato, stringere i denti e far andare le gambe più veloce che puoi: questa è la corsa istintiva.

La tecnica che impari in allenamento ti dice che non devi raggiungere immediatamente la posizione eretta, poi che devi spingere bene con i piedi, appoggiando il peso sulle punte, distendendo il più possibile la gamba e conducendo le braccia con regolarità lungo il corpo. Correre in questo modo è tutt'altro che istintivo, ti richiede di allungare il movimento dandoti la sensazione di perdere tempo. In realtà il movimento diventa più potente, ti richiede più energie, fisiche e mentali, e di fatto ti permette di andare più forte. I professionisti imparano anche, una volta assunto l'assetto corretto, a decontrarre collo e mascella, evidentemente (io non l'ho sperimentato) sanno che anche questo accorgimento permette di conservare la velocità.

Allungare i movimenti e decontrarre la muscolatura per essere più veloci: le corse brevi ti insegnano che la velocità non aumenta con la frenesia dei movimenti ma con lucidità, distensione e potenza. Ossia il contrario di quello che, nella quotidianità, facciamo quando siamo in ansia e cerchiamo di guadagnare tempo in modo convulso temendo di non farcela.

Un'ultima considerazione: ricordo di aver fatto le mie migliori partenze quando sono riuscito a rimanere rilassato e morbido il più a lungo possibile, per poi "esplodere" l'energia al momento dello sparo. La concentrazione mentale e la tensione del corpo vanno di pari passo quando con la prima riesci a garantire al corpo distensione, la contrazione toglie reattività. La mia è una riflessione empirica, proverò a trovarne conferma a livello scientifico, intanto sono ben accetti i pareri dei velocisti.
Mi viene quindi un altro parallelo tra corsa e quotidianità: siamo più pronti e reattivi a replicare o ad agganciarci agli altri, nelle conversazioni, quando siamo sicuri e tranquilli, siamo rallentati quando siamo più incerti e rigidi (anche nel corpo).