lunedì

“Ai malati psichici facciamo provare la fatica vera del giocare a calcio”

Luca Fiorentino è educatore-giocatore in una squadra di calcio di persone con disagio psichico e ci racconta che a ritmo di allenamenti, suggerimenti tecnico-tattici, partite di campionato e ritiri i ragazzi ritrovano capacità fisiche perse nei meandri della mente. Ed allenano anche la mente.

Allunghiamo le nostre possibilità.
di Luca Fiorentino

Il titolo di questo articolo è anche il nome del progetto sportivo del Dipartimento di Salute Mentale dell' A.O. San Carlo di Milano, che ha dato origine alla squadra di calcio Locomotiv Primaticcio.

Questo progetto nasce dal desiderio degli utenti del Centro Diurno di via primaticcio e si è poi sviluppato ed ampliato a tutto il Dipartimento. Un punto di forza, una caratteristica che rende efficace l'intervento è che esso nasce da un bisogno ed un interesse reale degli utenti che frequentano il dipartimento ed ha come oggetto il calcio, un gioco che appassiona molte persone anche quelle con difficoltà e disturbi psichici.

Desideriamo diffondere questa esperienza per valorizzarla e per sottolineare l’importanza dell’attività fisica in generale per persone con disagio, cercando di superare lo stigma della disabilità.

Un aspetto molto importante è quello di aver creato un progetto che non simulava, non è stato un “come se”.

Settimanalmente viene fatto un allenamento su un campo di calcio all'interno di una struttura sportiva del quartiere dove gli utenti risiedono, con due allenatori volontari: Il primo, Madella Alessandro si occupa della tattica, della formazione e l'altro, Santambrogio Andrea, della parte atletica, la preparazione con e senza la palla, ed entrambi sostengono, stimolano e aiutano ogni utente. Non sono esperti di tematiche psichiatriche ma sono due persone con una spiccata competenza naturale nelle relazioni e nelle interazioni con i “ragazzi” della squadra. Lavorare con volontari che vedono negli utenti prima la persona che non il paziente con un disagio, ha aperto nuove possibilità e avvicinato quest'esperienza al modo della normalità. Un esempio che ogni giovedì sera vediamo spesso ripetersi è: I giocatori che ascoltano e seguono il “mister” anche quando la fatica è evidente sul volto di molti, il provare a far qualcosa che non si è certi di riuscire a fare. Tutto questo può essere scontato in una qualunque squadra, anche dilettantistica, ma chi lavora da anni nella psichiatria sa che un paziente spesso non inizia un percorso o un attività nel timore di non riuscire. L'aver creato un contenitore, in cui si è riusciti a dare una possibilità di realizzazione a persone che in altre aree non ci sono riuscite, è un buon successo riabilitativo, educativo e pedagogico.

In questo periodo in cui il freddo si fa sentire mi si chiede perché non giochiamo al coperto, la risposta è la più semplice e “normale”: siamo una squadra, dobbiamo iniziare a prepararci alla seconda parte del campionato e lo facciamo sul campo dove poi giocheremo le partite. E così che fanno le squadre di tutto il mondo !

Un altro elemento importante che da quest'anno abbiamo aggiunto è che quando giochiamo in casa le partite del campionato Regionale Anpis, conduce la gara un arbitro della Lega Calcio che la Uisp di Milano, con cui collaboriamo, ci fornisce. Non mi sento di dire una banalità ma questa novità ha creato ancor più soddisfazione nei “nostri ragazzi” perché questo è un ulteriore elemento di realtà che dice quanto questa esperienza vuol essere radicata nella normalità.

Riteniamo si possa considerare questo intervento un vero e proprio laboratorio relazionale. Durante alcune fasi del progetto ci sono state difficoltà poiché non si riusciva a creare uno spirito di gruppo ne tanto meno una squadra e non si era in grado di condividere ne gioie ne frustrazioni; recentemente la situazione è cambiata per molteplici ragioni che hanno a che vedere con l'inserimento del cosiddetto terzo tempo (dopo le amichevoli si va a mangiare la pizza assieme), la proposta degli allenatori di un lavoro che mettesse le individualità al servizio della squadra e la proposta degli operatori di incrementare le esperienze di gruppo (vacanza, visione di film..). Proprio la settimana scorsa il Mister ha ricordato a R., il processo che ha attraversato da quando all'inizio sosteneva: “Io gioco con un mio schema..”, mentre ora lo spirito di squadra lo ha reso più forte e più bravo perché gioca con gli altri e la squadra gioca per lui. Molti utenti che frequentano i nostri Servizi hanno problemi col proprio corpo, a volte anche dispercezioni, hanno problemi di coordinamento o di resistenza fisica. Dopo una stagione riuscire a correre per un ora senza andare in affanno è sicuramente un miglioramento, del proprio stato che coinvolge però anche lo stato pschico per il miglioramento dell'autostima. La fatica è un tema che mi sta molto a cuore, forse per la mia formazione personale, e quindi ci tengo a riportare l'attenzione su di essa in quanto motrice di cambiamenti, di miglioramenti e punto a volte critico e difficoltoso delle persone che incontro nel lavoro che svolgo al Centro Diurno di via primaticcio. Spesso ho incontrato utenti che per situazioni personali e per la loro patologia non sono più in grado di far fatica per raggiungere un qualunque obiettivo o scopo nella loro vita. Lo sport insegna che la vera attività fisica è faticosa, è necessario far fatica per migliorare le proprie prestazioni nella corsa, nel giocare con gli altri all'interno di una squadra e nel sopportare di esser meno capace di altri. Lo sport per certi versi può esser ritenuto una metafora della vita. Sperimentarsi nella Locomotiv Primaticcio può potenziare le capacità di socializzazione e permette di sviluppare e di ampliare gli interessi di persone che a volte non hanno altri luoghi sociali.

Mi preme inoltre evidenziare un esperienza molto importante che i nostri allenatori ci hanno proposto e che abbiamo concretizzato nel 2010 e ripeteremo quest'anno, cioè quella di fare un ritiro sportivo per la squadra prima dell'inizio del campionato. Questa proposta poteva nascere solo da due persone che non lavorano in psichiatria perché era la massima espressione del far fatica ed un esperienza troppo “normale” forse per essere considerata realizzabile. L'obiettivo principale era quello di creare uno spirito di squadra che ancora mancava, imparando a convivere e a condividere non solo spazi ma anche un esperienza di vita.

La fatica di questa esperienza è stata per tutti, operatori compresi, molto alta, visibile sui volti e impressa nelle gambe di tutti ma indimenticabile non solo per avere potenziato gli obiettivi che ci eravamo posti: miglioramento della preparazione fisica, affermazione di una identità di gruppo e condivisione di spazi di vita inusuali ma per essere riusciti a portarla a termine e averne visti i benefici sul gruppo e sulla preparazione atletica di ogni giocatore. Tutti questi risultati hanno permesso agli utenti di trarne beneficio per il proprio benessere psichico.

In questa circostanza ci piace ricordare e ringraziare per il loro impegno: i Mister, Alessandro e Andrea, la Uisp, il Dottor Biffi direttore del Dipartimento che ha sempre valorizzato questa attività e i colleghi sia del Centro Diurno che del Dipartimento che ci sostengono. Un ringraziamento a tutti i giocatori della squadra che con la loro costante partecipazione continuano a far vivere questo progetto.

Luca Fiorentino Consulente Educatore D.S.M. dell'A.O. San Carlo B. (MI), collaboratore del blog


PALLAVOLO E DINTORNI: tre, non più di tre

Continuiamo l'operazione di smontaggio delle regole degli sport per capire che cosa le discipline sportive ti obbligano a fare in continuazione, quindi che cosa ti insegnano con la loro pratica. Oggi pubblichiamo la riflessione di Giancarlo Rinaldi, consulente pedagogico e pallavolista.


Cosa caratterizza la pallavolo e quali differenze dagli altri sport?
Sono diversi gli aspetti che rendono questa disciplina sportiva facilmente riconoscibile - una rete, una palla, due squadre, un rettangolo di gioco - ma ci sono alcuni tratti profondi, caratteristici, costituzionali che la rendono per certi versi unica nel suo genere sotto il profilo dell’esperienza. Uno di questi aspetti riguarda la regola dei tre tocchi.

Non più di tre
Il merito dell'invenzione della pallavolo in forma moderna, nata ufficialmente nel 1895, va riconosciuta a William Morgan istruttore di educazione fisica presso il college dell’YMCA di Holyyoke , nel Massachusetts (Stati Uniti).
Da qui "Volleyball", questo è il termine inglese con cui la pallavolo è riconosciuta in tutto il mondo,  significa "scarica", "raffica" o nel gergo tennistico "colpo al volo". Da qui appunto “palla al volo”.
Durante il gioco, infatti, la palla non può essere controllata e la sequenza dei tocchi, sotto forma di una catena di passaggi tra i componenti della squadra, non può essere interrotta, con un chiaro rapporto d'interdipendenza tra i giocatori.
L'errore non è mai perdonato ed è punito con la perdita del punto
Un’esperienza d’interdipendenza tra compagni che non può essere infinita ma è legata al vincolo dei tre tocchi, e rigorosamente non più di tre.
Il quarto tocco non è ammesso e rappresenta uno dei “falli” sanzionati con il punto per l’avversario.
Nella pallavolo insegnata nei settori giovanili, oltre alle prime acquisizioni dei fondamentali di base (il palleggio, il bagher, la schiacciata, il muro) la primissima cosa che viene curata dagli allenatori e proprio questo “scambio vincolato”.
Una modalità che non è naturale perché in prima istanza, per chi colpisce il pallone, è più istintivo e primordiale spedire il pallone dall’altra parte della rete affinchè tocchi il suolo nel campo avversario, costi che quel costi e nel più breve tempo possibile.
E’ una pratica dello stare in campo che va allenata e appresa attraverso un  costante esercizio, soprattutto nei primi anni di pratica, affinchè diventi un automatismo acquisito.
Ai tre tocchi corrispondono le tre fasi tipiche della pallavolo moderna:
-        la difesa/muro per difendersi dall’attacco avversario o la ricezione della battuta avversaria,
-        la costruzione attraverso il fondamentale del palleggio,
-        l’attacco attraverso la schiacciata.
La pallavolo dal 1895 ad oggi ha subito importanti cambiamenti: l’introduzione della schiacciata ad opera delle popolazioni filippine e quella successiva del muro per merito dei paesi dell’est.
In tempi più recenti abbiamo assistito all’eliminazione del cambio palla e l’inserimento della formula del Rally point system (come avviene nel tennis), così come l’introduzione del ruolo del “libero”, solo per citarne alcuni.
Nonostante il trascorrere del tempo solamente un elemento di base non è mai cambiato: la regole dei tre tocchi (e non più di tre).

Giancarlo, collaboratore del blog

giovedì

Cosa ti obbliga a fare il calcio: le regole creano abilità


Puoi toccare la palla solo con i piedi, cioè con la parte del corpo meno adatta a gesti precisi, e devi farla entrare dentro una porta difesa da un portiere e da dieci altri giocatori. Allo stesso tempo devi impedire al tuo avversario di far entrare la palla nella tua porta. Lo devi attaccare, aiutato da dieci compagni, ma allo stesso tempo star attento a difenderti, con la differenza però che in difesa è meno necessario essere precisi, per impedire alla palla di entrare nella tua porta puoi anche semplicemente buttarla via.

Questa è l'essenza del calcio, e devo dire che mi dà un certo piacere scarnificare così all'osso uno sport, così caricato di simboli e rappresentazioni nella sua versione professionistica. Vuol dire riportarlo a essere un gioco, un gioco bellissimo per quanto mi riguarda.
E allora puoi realmente osservare cosa ti obbliga a fare il calcio. Ti chiede di muoverti, di correre per lo più, per attaccare e difendere, ma allo stesso tempo di far correre la palla, in modo preciso, verso un compagno e verso la porta. Devi fare fatica per spostarti rapidamente e cambiare continuamente direzione, stare attento alla posizione dei compagni e degli avversari e far passare la palla dove l'avversario non può arrivare. Resistenza alla fatica, precisione, attenzione agli altri, velocità, imprevedibilità, a cui si aggiunge la potenza per quanto riguarda il tiro verso la porta e i contrasti tra giocatori di opposte squadre. Sono queste sei, ritengo, le abilità principali che il calcio richiede e sono anche molto diverse tra loro.

Per fortuna possono essere distribuite tra i vari giocatori di una squadra e anche i ruoli ne richiedono di diverse. Chi è molto bravo le possiede tutte più o meno allo stesso livello, ma, per l'appunto, ci riescono in pochi. Tutti però devono svilupparle e allenarle tutte per poter utilizzare l'abilità adeguata ad una certa situazione di gioco: per spazzare in difesa non serve la precisione ma vengono utili velocità e attenzione agli altri; per fare un assist la precisione è invece necessaria come per tirare da lontano serve la potenza e per intercettare tanti palloni bisogna essere resistenti.


Penso sia un esercizio utile quello di osservare uno sport dalla prospettiva delle regole che impone e delle abilità che richiede. Serve a sganciarsi dallo sguardo a volte soffocante delle tecniche e delle tattiche e a ridare alla disciplina sportiva la sua veste di disciplina, parola tabù ormai in quanto sinonimo di pratica rigida imposta da altri e slegata putrtoppo dal senso. Se il senso del calcio è diventare veloci, precisi, resistenti e potenti restando in relazione agli altri allora non è fondamentale mandare a memoria certi schemi ma trovare gli esercizi giusti perchè i giocatori diventino veloci, precisi, relazionali... Questo è educativo, a mio avviso, perché vuol dire far crescere i ragazzi.
Parlare di abilità permette di ricollocare lo sport nel mondo e di ridargli il suo senso educativo in quanto le abilità che si imparano nello sport si possono trasferire in altri ambiti adeguandole ai nuovi contesti. Alcuni educatori di servizi educativi lo fanno e riescono a restituire fiducia a ragazzi che da altre esperienze educative, come quelle scolastiche, avevano avuto solo ritorni fallimentari. Gli allenatori delle società sportive sanno di avere queste potenzialità tra le mani? Penso che a molti sfuggano, presi come sono dalla ricerca del campione e della vittoria.

Bisogna andare a scovare le abilità cui lo sport allena e creare consapevolezza nei ragazzi che certe abilità le posseggono. Penso sia un bell'obiettivo per un allenatore, interessante quanto se non più che insegnare lo stop o il dribbling. Così per i ragazzi diventa più semplice provare a trasferirle anche al di fuori dello sport.




IL RUGBY CONTRO LA CORRUZIONE

I due gruppi si avvicinano, piegano la schiena e le gambe, intrecciano le braccia e al momento del fischio iniziano a spingere gli uni contro gli altri come se volessero schiacciare gli avversari. E' una mischia di rugby, sembra che si stiano menando in realtà è un momento unanimemente riconosciuto come di estrema lealtà e correttezza. Il rugby è lo sport leale per eccellenza, difficile esplodano risse, che ci siano simulazioni, contestazioni arbitrali, recriminazioni post partita.
Possibile? Ci sarebbero decine di occasioni per cui, vista la prossimità tra chi gioca, la situazione potrebbe degenerare, eppure questo non accade, anzi, alla fine della partita si va tutti a bere e mangiare insieme. E' la tradizione anglosassone per cui ogni occasione per farsi una birra è buona? Non credo. Piuttosto è la naturale conseguenza di quello che questo sport ti obbliga a fare: stare a contatto in modo intenso e prolungato con qualcun altro, avversari e compagni.
Potete immaginare un abbraccio più stretto, sudore a rivoli, respiri affannati, grida di fatica, che in un raggruppamento rugbistico? (...sesso a parte, ma insomma qui parliamo di sport). E pensate che dopo essere entrati in tale intimità con gli altri ci sia ancora posto per furbizie, trucchetti, falli cattivi, insulti?
Superare certe barriere fisiche permette di abbatterne altre tutte culturali.

Un altra considerazione, questa volta a proposito dell'impatto e dell'energia. Nel rugby l'impatto con il corpo dell'altro è consuetudine, spesso è violento come quello di un placcaggio in cui chi placca esprime tutta la sua energia per fermare chi scappa verso la meta. Energia contro energia, lo scontro è previsto, sfondare e contenere fanno parte del gioco. La soglia del rischio può essere superata, la paura di far male agli altri svanisce perché gli altri si aspettano l'impatto e io posso esprimere tutta l'energia che ho a disposizione senza timore, ci pensano gli altri a contenermi, ci pensa l'arbitro ovviamente a far sì che lo facciano in modo lecito.

Fa tutto parte del gioco, la prossimità e l'esplosione di energia. Due dimensioni quasi annullate nella vita quotidiana che qui magicamente riappaiono, lasciando un segno di profondo appagamento.
Che dite, ci portiamo dietro un po' di rugby in ufficio...oppure in parlamento?

p.s. grazie igor per la chiacchierata generatrice

mercoledì

Vialli e i furbetti nelle giovanili del calcio

Se lo dicono Vialli e Lippi possiamo crederci. Chissà come sono riusciti loro a digerire la cultura del "furbetto" sportivo...Vialli e i furbetti delle giovanili del calcio

giovedì

Se gioco solo per vincere finisce che ho molta paura di perdere

"Se gioco solo per vincere finisce che ho molta paura di perdere. Così, o mi passa la voglia di giocare, oppure giocherò inibito dall'ansia di perdere."
P.Trabucchi



Il contributo di un autorevole psicologo dello sport sempre a proposito di ansie da gara:
 Se giochi solo per vincere finisce che hai molta paura di perdere

lunedì

SI PUO' BATTERE LA PAURA DELLE GARE?

Da qualche giorno sto pensando a cosa abbia dato lo sport a me, intendo dire la disciplina sportiva, quella fatta di allenamenti ripetuti, di gare e di un allenatore, non il gioco con amici, la corsa individuale o la nuotata in piscina. Visto che scrivo un blog su queste cose colgo l'occasione per riprendermi questo pezzo della mia storia, chissà se qualcun altro ci si ritroverà o trarrà spunti per rivedere la propria.

Devo dire che sono sempre stato per la seconda tipologia del fare sport, quella più estemporanea, amicale, ludica, un po' anarchica. Anche quando praticavo nuoto (per 7-8 anni) o atletica (per 5-6 anni) sognavo i momenti liberi al termine dell'allenamento e soprattutto, odiavo le gare. O forse le amavo
Una gara, che fosse di corsa o una partita di un torneo di calcio scolastico o parrocchiale, mi creava tali subbuglio e agitazione da non dormire la notte prima se non quelle precedenti. Ciò nonostante le facevo e le volevo fare, senza che peraltro nessuno me le imponesse, né l'allenatore né tanto meno i miei genitori. La gara indubbiamente mi affascinava e mi terrorizzava allo stesso tempo.

Perché? Sognavo incredibili imprese sportive, partite di calcio in cui facevo cose spettacolari e mi coprivo di gloria ma quando il fatidico momento si avvicinava la paura saliva alle stelle. La gara era la prova, se vogliamo usare un termine pedagogico, il momento ufficiale e formale in cui le regole erano più rigide e non si scherzava più. L'ho già scritto in questo blog, penso che le sfide siano importanti occasioni di crescita proprio perché sono i momenti in cui tutti si impegnano molto e quindi il livello emotivo-tecnico è più alto. Allo stesso tempo non sono la lotta per la vita e la morte e per sostenere la tensione bisogna saper relativizzare l'enfasi delle sfide. In fin dei conti persa una sfida ce n'è subito un'altra in cui ci si può risollevare e anche all'interno della stessa gara ci può riprendere dopo una brutta partenza.

Proprio perché sono momenti importanti, vanno tutelati per far sì che chi vi partecipa, soprattutto le prime volte, non si bruci. Penso sia importante che un allenatore, o comunque un genitore, abbia presente questi fattori per spronare alla competizione la sua squadra, o il figlio, e allo stesso tempo tutelarli.

Su questo non credo di essere mai stato aiutato nel modo giusto, lo dico obiettivamente e senza nessun rimpianto. Voglio dire, la strategia che mi è stata proposta in famiglia è sempre stata: "Non ti preoccupare, comunque vada la tua gara non è una cosa così importante", quando per me invece era tremendamente importante!! (per me poi la cosa importante non era tanto vincere quanto fare una figura dignitosa).

Non è riducendo l'importanza dell'esito di una competizione che se ne sdrammatizza la portata emotiva. Anzi. E' più utile invece, a mio parere e in un'ottica pedagogica, cercare di individuare tutti gli obiettivi che si possono raggiungere in una gara, oltre all'esito della propria prestazione individuale: sempre a livello individuale c'è anche la gestione tattica dell'avversario, la comprensione del livello di affaticamento del proprio corpo, la corretta esecuzione tecnica dei movimenti, lo sforzo di essere imprevedibili...In una squadra poi c'è l'attenzione alla coralità degli spostamenti, il sostegno ai compagni in difficoltà, la ricerca di una rapida intesa.
Insomma la sfida è innanzi tutto il momento in cui si impara, più in fretta e in maggior misura che al solito, anche a vincere, ma non quello in cui per forza si vince. E' il momento in cui si cresce non quello del giudizio.

venerdì

Pist-doping

Per continuare la riflessione sullo sport guardato segnalo questo post di Igor Salomone e la relativa discussione: E io che c'entro? da Cronache pedagogiche

FUGA DAL TIFO

Bentornati dopo la pausa estiva!
Ci sono alcuni considerazioni sport-educative che ho fatto durante le vacanze che voglio provare a mettere su questi pixel... vediamo se riesco a ricostruire le cose che ho pensato.

Ho seguito a sprazzi, soprattutto quando i bimbi erano a nanna la sera oppure alla radio, le olimpiadi, anche nelle specialità più sconosciute. Le ho seguite principalmente perché tifavo per qualche atleta italiano, ho visto ben poco delle gare in cui non avevamo speranze di medaglia (e comunque la Rai seguiva quasi solo gli azzurri).

Quindi grazie al tifo ho scoperto o riscoperto il taekwondo, la ginnastica ritmica e artistica, la canoa fluviale, la scherma, il tiro a segno e altre discipline ancora. Quando tifi per una squadra o un atleta, non stai molto attento allo sviluppo tecnico del gesto sportivo, soprattutto quando non conosci lo sport, stai attento al fatto che il "tuo" o la "tua" guadagnino punti, prendano voti, avanzino in classifica, speri che vincano o che vadano a medaglie, partecipi alla sua competizione, gareggi con lui, giochi con lei.

Guardare o ascoltare la prestazione sportiva di qualcuno è un gioco, un divertimento, un'emozione. Di per sé non trasmette nulla di valoriale, di positivo o negativo, è più semplice che guardare un film, la storia consiste in qualcuno che vince e qualcuno che perde, finito lì. Ci si può appassionare però all'altalenanza del punteggio, alla rimonta di qualcuno, in alcuni casi alla bellezza di alcuni gesti.

Penso che assistere allo spettacolo sportivo solo come tifosi, quindi con la sola idea di vincere insieme al "proprio" rappresentante, sia alla lunga un'esperienza logorante, anche se si vince spesso. Penso che il tifo debba evolvere, almeno un po', verso il gusto per il bello e sganciarsi un po' dall'esito della competizione. Penso anche che non sia affatto facile, che sia molto più facile e immediato tifare e aggrapparsi all'adrenalina che il rischio di perdere o la gioia di vincere ti può dare. Tifare è faticoso, genera ansie, suscita emozioni simili a quelle del gioco d'azzardo. Il romanzo di Nick Hornby "Febbre a 90' ", che è di fatto il racconto autobiografico della passione dello scrittore per l'Arsenal, rappresenti splendidamente la dipendenza dal tifo per la propria squadra.

Il tifo ci dice qualcosa di uno sport, ci avvicina a uno sport, ci mette in contatto con quel micromondo che quella pratica si porta dietro come cultura? Credo proprio di no, e lo dico consapevole ed esperto delle mie fasi da tifoso, soprattutto in passato ma talvolta anche di questi tempi.
Assistere a uno spettacolo sportivo può lasciarti qualcosa di diverso dalla febbre adrenalinica, penso, soltanto se prendi un po' le distanze dalle vicende della competizione e inizi a cogliere i movimenti collettivi, gli sforzi per migliorarsi o risollevarsi, la generosità, la collaborazione, il fair-play, le tecniche. E' un modo più attivo e più ricco di fare gli spettatori, non necessariamente è più pesante, di sicuro è più rilassante.

Guardare in questo modo alle gare è una cosa che si impara. Non è una cosa così semplice, per cui penso che sia importante anche insegnare questo modo di guardare ai bambini e ai ragazzi, se non altro perché non vedano soltanto la possibilità di tifare e sappiano alternare questi due tipi di sguardi.

giovedì

UN PO' PIU' ABILI A SCIARE

Matteo ha 18 anni, è uno studente che si impegna nel giornalismo sportivo studentesco e ha seguito per due giorni un progetto di avvicinamento allo sci per portatori di disabilità dell'associazione Freerider. Il suo articolo ci apre una finestra su sport, disabilità e volontariato, e anche sul giocare con i primi limiti con il sorriso.
Quando si racconta di sport non si cerca solo di raccontare il singolo evento, ma anche di trasmettere le emozioni provate durante la manifestazione. Raccontare una manifestazione è già un impegno importante se ci si può immedesimare negli atleti, raccontare una manifestazione per disabili potrebbe diventare un’impresa anche a causa delle difficoltà di immedesimazione fisica. Ma proprio per questo è importante regalare, perché penso che ogni racconto sia un dono, qualche riga su un progetto portato avanti dall’associazione Freerider. Ormai in tanti si riempiono la bocca di “buone parole” e si ergono a difensori dei valori dello sport, ma nella realtà non sono molte le persone che si impegnano per fare in modo che questi valori vengano espressi nella quotidianità.

L’associazioni Freerider da dieci anni a questa parte regala a ragazzi disabili di tutta Italia, grazie a uno ski tour nelle maggiori sedi sciistiche italiane, la possibilità di cimentarsi con lo sci da seduti. Lo sport per disabili per me è stata un’avventura nuova ed emozionante, perché mi ha permesso di guardare in modo diverso lo sport e le gare. In una gara l’unico interesse è il risultato, l’atleta che conquista la medaglia, nel caso degli sport singoli, o la squadra vincitrice, negli sport di squadra, vengono toccati in quanto protagonisti delle gesta che rendono magica la competizione, ma non vengono considerati se non come atleti.


Il progetto “Primi 10” mi ha permesso di rimanere 24 ore su 24 a contatto con i ragazzi che, a parte poche eccezioni, iniziavano a confrontarsi con lo sci. Questa vicinanza con gli atleti, oltre a concedermi l’opportunità di sentire i giudizi a caldo da parte dei novelli atleti dopo le prime lezioni, ha permesso che si instaurasse un rapporto positivo con tutti i ragazzi che mi hanno dimostrato, dandomi una lezione di vita, come, anche nelle maggiori difficoltà, se lo si vuole davvero c’è sempre una via di uscita per ogni problema.
La tre giorni sulle ultime nevi di Bormio è stata, quindi, una festa per tutti, merito soprattutto del team Freerider e dei due dimostranti seduti, Pietro e Paolo, che hanno insegnato ai ragazzi.
Il segno caratteristico è stato il sorriso, mai fuggito dalle facce di tutti i presenti, atleti e accompagnatori, grazie anche alla simpatia di Carlo, atleta “esperto” tra i partecipanti, che con la sua parlantina non ha fatto mancare le risate, anche sulle piste con cadute spettacolari. Nonostante le cadute frequenti, soprattutto nei primi giorni, si sono molto ben distinti Marco, Luca e Ilaria.
Ma come spesso accade non tutti sono portati per un determinato sport e così la nuotatrice Angelica rinuncia alle ultime lezioni evidenziando come lo sci da seduti sia troppo faticoso a causa della durezza del “guscio”, la sedia con un sci sulla quale sciano i disabili aiutandosi con due bacchette-sci, che impedisce i movimenti del busto. Angelica parlando degli sport provati ha detto anche: “Lo sci non mi piace! Anche a canottaggio ho faticato, ma almeno quello mi è piaciuto.”
Un altro atleta che ha gettato la spugna prima di terminare i tre giorni delle lezioni è stato il cestita Ludovico che dopo varie cadute ha deciso di risparmiarsi per le partite di wheelchairbasket, sport giocato con Luca.
Nonostante la tre giorni non si sia conclusa con nessuna gara e nessun vincitore, siamo tornati a casa tutti vincitori! Perché i ragazzi hanno conosciuto la possibilità di sciare nonostante la disabilità e potersi rendere autonomi anche tra le nevi e noi, accompagnatori non familiari, studenti liceali e universitari, arrivati come volontari da Varese, abbiamo visto come la vita va avanti davanti a tutto e dopo ogni caduta ci si può rialzare più forti di prima.

In conclusione mi sento in dovere di ringraziare Giulio Broggini, Nicola Busata, Paolo Panzarasa, Fabrizio Tamborini, Davide Fumagalli, detto “Tomba”, componenti del team Freerider, insieme ai due dimostratori sitting/maestri, all’ASL di Varese, al Centro Addestramento Alpino di Moena e all’associazione Sestero, nella figura di Roberto Bof, che ha permesso a me e ad un altro studente fotografo di incontrare e conoscere un mondo a noi sconosciuto e vivere un’esperienza formante e straordinaria sulle nevi di Bormio.
Un grazie in ultimo, ma non per importanza, va a tutti gli atleti e i loro accompagnatori, che hanno reso questi tre giorni un po’ più magici.

Matteo Vismara

Le lacrime degli azzurri e il valore della crisi


Le lacrime degli azzurri VIDEO

"Abbiamo accusato la fatica, eravamo cotti".

La fatica è stata nominata spesso come principale fattore della disfatta azzurrra nella finale dell'europeo contro la Spagna. Per come è andata la partita e per le dimensioni del risultato si può proprio dire che l'Italia è andata in crisi. Il terzo e il quarto gol sono arrivati con i nostri giocatori che sembravano incapaci di tenere il pallone tra i piedi, gli spagnoli erano ovunque e recuperavano palla subito, hanno fatto gol con estrema facilità, potevano farne altri.

Nello sport la crisi è evidente e repentina, è un crollo verticale, gli avversari ti sopravanzano e tu vai in sofferenza. Il tuo corpo non ne può più, desidera soltanto smettere, smettere di correre, di nuotare, di combattere, di stare in gara, di respirare con affanno, di stare attento. Smettere significa uscire dalle regole della competizione, staccare la spina e recuperare le energie, meglio se sotto una doccia.

Chi fa sport fa sempre fatica e prima o poi incontra una crisi quando la fatica diventa troppa.

Per non andare in crisi basterebbe tener sotto controllo la fatica, abbassare il ritmo se si sta correndo o nuotando, mettersi in difesa in un partita di rugby o di calcio o in un match di boxe, fare qualche cambio di giocatori in una sfida di pallavolo o basket. Ma, come dimostra la finale degli europei, non sempre ci si riesce o non sempre è possibile.

Si va in crisi quando si è deboli, poco allenati, quando gli avversari sono troppo forti ma soprattutto quando si pretende troppo dalle proprie forze. Troppo? Di più del solito. Quando si vuole andare oltre i propri limiti con l'ambizione di migliorare.

A pensarci bene la crisi è tutt'altro che una situazione negativa se la si guarda in faccia: è sofferenza, non c'è dubbio, sofferenza fisica e psicologica, ma è anche l'occasione che ci fa testare i nostri limiti. Vista con questa prospettiva diventa un'occasione per capire qual'è il nostro limite attuale e cercare dei modi per andare oltre.

L'Italia dalla partita con la Spagna impara che non può affrontarla sul terreno del possesso palla se non correndo molto e muovendosi in modo corale. Oppure deve inventarsi altri modi di giocare...

Dalla crisi si impara il valore dell'allenamento, della disciplina dell'allenamento, della preparazione regolare. Difficilmente un ciclista prepara giro d'Italia e tour de France nella stessa stagione (a meno che non faccia ricorso a qualche bomba), un nuotatore non fa gli europei al massimo nella stagione delle Olimpiadi, entrambi pianificano i propri allenamenti in un crescendo che lo porti al massimo della forma nel momento cruciale.

Negli sport di squadra da una crisi si può imparare a cambiare impostazione tattica, a sviluppare nuovi aspetti tecnici, a valorizzare nuovi giocatori, a rafforzare la collaborazione nel gruppo.

C'è da chiedersi se si possa crescere di livello senza affrontare qualche crisi. Penso di no, penso che le sconfitte e le crisi insegnino di più, o almeno quanto le vittorie. L'importante è non voler scappare subito da quel dolore, rimanerci un po' a contatto, digerirlo lentamente, capire che lo si può sopportare e poi riassaporare il gusto di ripartire. Nello sport, in fin dei conti, è più facile che nella vita, la posta in gioco non è così alta, probabilmente è più difficile per i professionisti perché per loro lo sport è la vita. La storia di Pantani mi sembra esemplare.

Un allenatore con uno sguardo educativo la crisi la usa, la condivide con la sua squadra, ne parla, la interroga cercando altri punti di vista. Tra l'altro mi sembra l'unica maniera perché la crisi non diventi un incubo, uno spauracchio per il futuro, oppure, se minimizzata, esploda più virulenta a distanza di tempo.
Qualsiasi riferimento a politici-allenatori di calcio è puramente casuale...

lunedì

QUANTI GALLI NEL POLLAIO: le fatiche e le gioie dell'allenatore di pulcini e il metodo induttivo

G. è un amico che allena da anni squadre di calcio di bambini tra i sei e gli otto anni. La fa per puro piacere, di mestiere fa tutt'altro, l'addetto stampa. E' talmente legato a questa passione che ha cercato una squadra da allenare anche quando ha cambiato casa e si è trasferito in un'altra città. Ha quarant'anni, tanto per completare il quadro.

Ci fermiamo a chiacchierare dopo una nostra partita di calcio a 7, davanti a una birra. Mi racconta che ha avuto un diverbio con un genitore e che la cosa gli ha lasciato un po' di amaro in bocca.

"Alla fine della partita questo padre viene da noi (la squadra ha due allenatori) e ci dice senza mezzi termini che nel terzo tempo abbiamo completamente sbagliato squadra, che abbiamo messo i ragazzi fuori ruolo e che non ci capiamo niente di calcio. Non era la prima volta che veniva a mostrarci le sue lamentele e questa volta la situazione è degenerata. Il mio collega si è lasciato prendere dalla rabbia e gli ha risposto a tono, la discussione si è accesa e a un certo punto ho dovuto mettermi in mezzo perché non si menassero...Tieni conto che i bambini hanno otto anni...è incredibile."
"Voleva che suo figlio giocasse di più?"
"Non tanto quello, voleva che giocasse nel ruolo in cui secondo lui rende meglio. Io nel terzo tempo (i bambini di otto anni giocano tre tempi da 10' e sono cinque in squadra) l'ho messo in difesa, che è pure un segno di stima verso di lui visto che a quell'età la difesa è il ruolo più difficile, e lui riteneva che la squadra si fosse indebolita. Parlava a getto continuo, abbiamo cercato di spiegargli che la nostra priorità è comunque che tutti giochino lo stesso tempo e che per far questo bisogna spostare i giocatori di ruolo...Che poi è anche formativo per loro cambiare la posizione in campo, sperimentarsi tatticamente, li fa crescere..."
"Immagino abbiate perso la partita..."
"Si, 1-0, ma non abbiamo giocato male, abbiamo perso per un episodio".

G. poi allarga le riflessioni ad altri genitori.

"L'altro giorno uno viene da me tutto sconsolato dicendomi che suo figlio proprio non andava...L'ho guardato un attimo e poi gli ho detto che invece suo figlio era migliorato parecchio ed era diventato proprio bravo. Non mi credeva!"
"Hanno fretta di vedere i risultati subito, non colgono i passi avanti fatti. Sai per me invece qual'è la cosa più bella? Vedere che un ragazzo mette in pratica quello che gli ho insegnato. Alcuni ci mettono poco, altri tanto tempo, però a quello devo puntare..."

Come dire che le vittorie poi arriveranno, o forse che già quelle sono vittorie.

"Questo padre di cui ti ho parlato ha effetto deleterio sul bambino, gli mette pressione. Quando c'è la madre a guardare le partite gioca più sereno, l'ho notato più volte."

Poi gli chiedo qualcosa sugli allenamenti e sulle tecniche.

"Guarda, quando gli insegno il passaggio inizio subito a farglielo fare, senza spiegazioni, soltanto provare. Poi gli spiego cosa correggere, la posizione della gamba d'appoggio, il punto d'impatto del piede. Quando gli insegno il tiro faccio usare delle palle più leggere, in modo che abbiano la soddisfazione di calciare lontano. Poi uso la metafora della fionda, che la loro gamba è come una fionda che spinge la palla...se la usano in questo modo anche i piccoli possono calciare forte come quelli più alti. Cerco anche di assecondare i loro istinti, c'è un bambino che ha l'impulso di tirare ogni volta che gli arriva la palla, allora gli ho suggerito di alzare la testa e guardare prima la porta...non è facile ma pian piano inizia a farlo."

C'è tutto il tempo dell'educazione nelle parole di G., e l'educazione non può avere fretta perché è già complicata di suo e perché è fatta di osservazione. Un allenatore deve poter avere la serenità e il tempo di guardare i suoi ragazzi per capire dove sbagliano e come possono migliorare. Altrimenti diventa un selezionatore, o un intrattenitore, che son pur sempre funzioni utili per allenare, ma se ci fossero soltanto selezionatori o intrattenitori le squadrette giovanili non terrebbero i ragazzi agganciati a lungo.

Interessante poi questa cosa del metodo induttivo per introdurre la spiegazione di un movimento. Prima ti faccio fare e poi ti spiego. Mi chiedo se sia una peculiarità dello sport e se tutti gli allenatori la pratichino. In tal caso sarebbe un'interessante approccio da suggerire al mondo dell'insegnamento e della formazione, in cui "la teoria prima degli esercizi" è il paradigma dominante, che spesso disperde l'attenzione di chi deve imparare, soprattutto di chi fa fatica con i concetti e con l'astratto. Immaginate un insegnante che inizia a spiegare che cos'è un aggettivo facendo scrivere ai ragazzi un pezzo senza aggettivi. Oppure invitandoli a eliminarli una volta scritto...

"Mi chiedo perché tanti genitori vogliano sostituirsi agli allenatori in nome di una maggiore efficacia ed efficienza nei risultati" dico io.
"Vedi il fatto è che non riescono a comprendere che sul campo, in partita, intervengono fattori diversi dalla tattica, come l'emozione o la fatica. Soprattutto non capiscono che sul campo è diverso che sulle tribune, che bisogna trovarcisi nella bolgia e che quindi tutti, bambini e allenatori, possono anche perdere lucidità" risponde G..

Bisogna accettare l'errore per l'appunto, lasciargli il suo tempo perché è il tempo che serve a imparare. Che è un concetto che a un genitore può servire, eccome. Sarà mica questo il punto?


Fuori squadra? Ma siamo matti!

Video carino e buona musica con le interviste all'allenatore e ai ragazzi della squadra del centro diurno del reparto psichiatrico San Carlo, Milano

http://mrgiofelix.wordpress.com/2011/02/20/locomotiv-primaticcio-mes-que-un-club/

giovedì

Calcio e disagio psichico: la benefica normalità della fatica e del divertimento


La tavola rotonda del Quanta Village di Affori, a Milano (che ha preceduto il quadrangolare tra squadre di pazienti psichiatrici), ha dato voce a vari soggetti che gravitano attorno al mondo del calcio e del disagio mentale e pensano che lo sport sia uno strumento di crescita e riabilitazione. Una bella occasione per tutti per capitalizzare anche a livello di pensiero alcune intuizioni che l'attività sportiva fa invece mettere in pratica. In platea, oltre agli operatori, ai medici dei centri diurni e a qualche genitore, soprattutto i pazienti dei servizi psichiatrici.

Un genitore, un paziente-calciatore, un allenatore, uno psichiatra, il presidente di Uisp Lombardia, moderati da un consulente pedagogico, si sono confrontati su alcune questioni relative al come sfruttare al meglio gli effetti dello sport e in particolare:

-l'allenatore deve tutelare i propri pazienti-giocatori da sforzi eccessivi o deve spingere perché si migliorino?
-il gruppo, inteso come compagni di squadra, allenatore, arbitro, avversari, pubblico, è un limite o uno stimolo per uno di questi ragazzi?

Il genitore ha raccontato in generale degli effetti positivi che partecipare alla squadra del centro ha prodotto in suo figlio, Umberto e Alessandro, giocatore e allenatore, hanno sottolineato l'importanza di migliorarsi attraverso gli allenamenti e le partite e di come questo sia possibile soltanto trattando i ragazzi senza troppe cautele e attenzioni alle fatiche individuali, "come dei giocatori normali" a cui va spiegato il giusto movimento tecnico e tattico e stimolandoli a correre.

"I ragazzi vanno motivati a far emergere le loro qualità" ha detto il dottor Biffi del dipartimento San Carlo. "L'altruismo, lo spirito di sacrificio, se l'allenatore sa tirarli fuori permette ai ragazzi di star meglio nella vita", trovando quindi un nesso tra le risorse che si mettono in atto nello sport, in particolare in quello di squadra, e quelle che si impiegano nella vita di tutti i giorni.

Un accento diverso ha messo Paolo della Tommasa presidente Uisp Lombardia, che ha indicato tra le abilità principali dell'allenatore quella di conservare la dimensione del divertimento e del gioco all'interno delle sfide e in generale della competizione. "Voglio proporre nel nostro campionato una classifica del gradimento delle partite in base al divertimento", in contrapposizione all'ossessione per la vittoria cui si assiste in molte partite giovanili e a cui i genitori contribuiscono notevolmente con le loro esortazioni da bordo campo.

Il gruppo e le sue potenzialità sono stati al centro della maggior parte degli interventi.

"La tensione in gruppo si smorza" ha aggiunto Umberto, "e comunque è meglio confrontarsi con avversari forti, anche se ti intimoriscono, perché si impara di più".

"Creare un gruppo è l'obiettivo che ci siamo dati introducendo il ritiro estivo, il che ha comportato per i ragazzi lo staccarsi dalle famiglie e dalle abitudini. Ha funzionato, è stata una scommessa vinta" ha detto il mister Alessandro.

"Giocare con altri e contro altri ragazzi può generare ansia" sostiene il dottor Biffi, "così come affrontare una sconfitta e dover ripartire, sono occasioni per rafforzarsi su questi aspetti che la competizione offre". E su questa linea si è espresso nel suo secondo intervento anche il presidente Uisp che ha sottolineato l'analogia tra regole sul campo da gioco e nella quotidianità, aggiungendo l'importanza che un allenatore-educatore sappia far trovar soddisfazione anche nelle sconfitte.

"Lo sport di squadra è anche un po' teatro, assegna a ognuno un ruolo e lo obbliga a delle responsabilità ben precise legate a quel ruolo, un ruolo anche al di fuori dal campo e comunque sociale", interviene un educatore dalla platea.

Sport metafora della vita e allenatore parente stretto dell'educatore, questo in sintesi il messaggio che esce dalla tavola rotonda e che i ragazzi si sono portati sul campo, dove in azione a quel punto entravano i loro corpi. Come a dire che dopo la teoria subentrava la pratica, fatta di essenzialità e rapidità, poco tempo per pensare, idee chiare e molto istinto per agire. Anche qui sta il segreto del successo dello sport come strumento di benessere e anche di apprendimento, nella sua semplicità e fisicità. Anche per chi è portatore di una sofferenza mentale.



lunedì

ALLENAREDUCARE ALLA TAVOLA ROTONDA E AL QUADRANGOLARE DI AFFORI

DOMANI POMERIGGIO PARTECIPERO', IN VESTE DI MODERATORE, ALLA TAVOLA ROTONDA SU SPORT E DISAGIO PSICHICO CHE PRECEDERA' IL QUADRANGOLARE TRA SQUADRE DI PAZIENTI PSICHIATRICI CHE VEDETE SOTTO. UNA BELLISSIMA OCCASIONE PER UN CONFRONTO SU TEMI COME GRUPPO, COMPETIZIONE, RUOLO DELL'ALLENATORE, VISTI ALLA LUCE DI QUESTA PROBLEMATICA.
SUL BLOG SEGUIRANNO SICURAMENTE COMMENTI AL DIBATTITO E INTERVISTE AD ALLENATORI E GIOCATORI.



Martedì 8 maggio 2012 si sfideranno per un quadrangolare presso il Quanta Village di Via Assietta:


Real Affori


Global Sport Lario

Locomotiv Primaticcio


Assietta United


Programma della giornata:

Ore 14.00 – 15.30

Tavola rotonda presso Sala Conferenze Quanta Village

SPORT, GRUPPO E AGONISMO COME POSSIBILI STRUMENTI ALLA BASE DEL PERCORSO RIABILITATIVO”

Relatori:

DOTT. GIUSEPPE BIFFI

Direttore Dipartimentimento Salute Mentale dell'Azienda Ospedaliera San Carlo Borromeo

PAOLO DELLA TOMMASA

Presidente Regionale UISP

CESARE POSCA

Peer Supporter Global Sport Lario

ALESSANDRO MADELLA e ANDREA SANTAMBROGIO

Allenatori volontari Locomotiv Primaticcio


Moderatore:

Dott. Luca Franchini

Consulente Pedagogico

Ore 16.00 – 18.00

SI GIOCA !

Ore 18.30

Premiazione e Aperitivo

Via Assietta 38 c/o CRM e CPM dell'Azienda Ospedaliera San Carlo Borromeo


Dipartimento di Salute Mentale

A.O. Ospedale San Carlo Borromeo


Rinfresco offerto in collaborazione con i Gruppi Cucina

delle UOP del Dipartimento di Salute Mentale


mercoledì

I soldi non fanno la felicità

Forse il calcio truffa è la naturale conseguenza dello sport-business, è solo l'altra faccia della medaglia dei super stipendi milionari, se non puoi arrivarci ti arrangi in qualche altro modo. "Devi pur guadagnare per campare anche quando non sarai più atleta" diceva il calciatore corrotto del film di Sorrentino L'uomo in più. In un mondo di ricchi, quello dei calciatori, ci si sente poveri se non si è milionari. Questa distorsione della realtà è però, a mio parere, la conseguenza della cultura del risultato a tutti i costi, una cultura che affonda le radici non soltanto nelle società professionistiche del calcio di serie A, ma in tutte le organizzazioni sportive che ambiscono produrre campioncini che calchino quel palcoscenico (nulla di male in questo) a scapito di mille persi per strada o educati male allo sport. E' chiaro poi che quando uno diventa davvero professionista tra i professionisti, si porti dietro questa cultura che incensa i migliori e cerchi in tutti i modi di restare tra i vincitori almeno sul piano dei guadagni. Se il risultato da perseguire, il principale, è fare tanti soldi, cercherà di farlo anche in modo non lecito.
Risultato a tutti i costi, businness, truffe sportive si immergono nella stessa acqua, in compagnia anche del doping.
A ragionare su questi temi si cade facilmente nel moralismo e nell'idealizzazione di un passato in cui i valori dello sport erano ben altri. In realtà gli scandali nello sport si ripetono da decenni, attualmente sono probabilmente aumentati, ma di fatto rispondono sempre alla medesima logica. L'antidoto, inevitabilmente, sta nel presidio dei capisaldi stessi dello sport, nel gioco, nell'incontro con l'altro, compagno, avversario o allenatore, nell'ascolto del proprio corpo ma anche e soprattutto nel gusto del gesto tecnico, del movimento armonico e nella voglia di migliorarsi sempre. Cioè nel gusto di imparare e di far imparare.

Spiccare il volo o bruciarsi le ali?

La vecchia questione se si debba spingere sulla competizione o sulla partecipazione vale a tutti i livelli, anche le super squadre di professionisti hanno questo problema. Bisogna puntare al successo nella singola partita/gara, quindi far giocare quelli più in forma, oppure puntare a far crescere e a dar fiducia a chi ha ancora necessità di fare esperienza, proprio grazie alla sfida?
Forse però il dilemma non esiste e chi crea un buon gruppo competizione e partecipazione li fa diventare pari ingredienti della stessa torta di qualità (che dite, il Barcellona può essere un buon esempio?) Io penso che la competizione funzioni come la verifica a scuola, permette cioé di imparare molto in fretta perché è il banco di prova, la situazione in cui devi dare il massimo. Tutti devono potervici accedere perché è una splendida occasione di crescita e per la squadra significa aumentare il capitale tecnico.
Allo stesso tempo negli sport di squadra la competizione significa condividere la responsabilità di una sconfitta o di una vittoria e tutti sono responsabili allo stesso modo, il campione, la recluta e l'allenatore. Ecco i problemi nascono lì, attorno alla responsabilità e al gap tecnico, perché le reclute, o i meno bravi, ovviamente hanno minor bagaglio tecnico ma in partita le stesse responsabilità, e siccome abbiamo detto che attraverso le sfide ci devono passare per crescere, allora la squadra deve compensare in qualche modo alle loro inevitabili mancanze, dovrà spendere di più, giocare meglio, avere maggiori attenzioni. L'allenatore a sua volta deve essere consapevole e preparare la squadra a questo sforzo, altrimenti rischia di soffocare di responsabilità, e in seguito di sensi di colpa, chi si affaccia timidamente alla ribalta delle competizioni.
Far crescere un giocatore è un'impresa di squadra, anche perché si fa per la squadra e non soltanto per il giocatore. L'allenatore è il garante di questa impresa. Il tutto, tra l'altro, mi sembra una splendida impresa educativa, da trasferire in molti altri ambiti delle relazioni tra le persone.

domenica

Spezzagli le gambe!

Stralcio di intervista a dirigente di una polisportiva  della Brianza legata al Csi

....Qui siamo già entrati sul tema della performance e alla domanda “quanto preme sui ragazzi l'ottenimento dei risultati?”, il signor S. risponde che sono soprattutto i genitori a spingere sui risultati e che sono proprio loro la parte più problematica nella rete dei rapporti che nascono nelle società sportive.
Per esempio “è importante rispettare i passaggi di età e accordarli con i passaggi di categoria”, mentre in molte società agonisticamente orientate si tende a far bruciare le tappe ai migliori, anche perché i genitori premono in questo senso.

“Il problema ulteriore è che poi i genitori diventano dirigenti e che quindi determinano le scelte societarie!"

Di conseguenza il problema è culturale e di sicuro tocca anche le società virtuose, quelle che hanno un'idea del calcio "non incentrata solo sui risultati". La cultura sport-educativa va difesa, e bisogna trovare le parole per farlo, e la cosa non è facile perché devono essere parole intelligenti (blog).

...Altre considerazioni riguardano per esempio scelte come quella del capitano, “che nelle squadre spesso è il più bravo ma non il vero leader, mentre da noi per lo più è il contrario” . 
Poi c'è la distinzione tra spirito di squadra e schema tattico. “A noi preme soprattutto il primo, ma gli allenatori fanno fatica ad averli presenti entrambi, l'ossessione tattica dei professionisti filtra in continuazione dai media e viene imitata. Tu non sai quanti danni ha fatto Sacchi nelle piccole società con i suoi moduli...”